venerdì 25 agosto 2017

Pensieri per lo spirito


IL CRISTIANESIMO 
È PER GENTE CORAGGIOSA
Il rischio di perdere, per trovare


«Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!».
(Mt 19, 21)






Il cristianesimo è una faccenda "seria", per gente coraggiosa: non si può essere cristiani deboli e timorosi, altrimenti il rischio non è di esserlo "a metà", ma di non esserlo affatto. Il cristiano deve "osare", lasciare tutto ciò che gli impedisce di seguire il Cristo, fidandosi di lui, delle sue promesse, delle ricompense per chi decide di vivere veramente alla sua sequela.

Distacco dalle "cose"

Seguire Gesù significa imparare a distaccare il proprio cuore dalle cose, e se a volte questo distacco ci è concesso di viverlo poco per volta, quasi in una sorta di allenamento progressivo, altre volte, come accade al giovane ricco della pagina di Matteo (Mt 16, 19-22), la scelta deve essere immediata e radicale. Non ci si può fermare a pensare solo alla classica dicotomia vocazione religiosa/laicale. Sarebbe fin troppo facile. Al giovane ricco Gesù chiede di superare la Legge, di andare "oltre" essa, per seguire Dio fattosi carne, e dunque il suo comandamento nuovo, quello dell'amore reciproco, dell'amore verso Dio, se stessi e il prossimo.
Tante volte, anche al cristiano di oggi viene chiesto di dare un taglio subitaneo a situazioni, rapporti, stili comportamentali e di vita. Può accadere se egli si adagia un cristianesimo "comodo", in cui si accontenta del "minimo sindacale", mentre Gesù chiede, a chi lo vuole seguire veramente, di non limitarsi a questo, ma di liberare fino in fondo il cuore, per andare al di là dei singoli comandamenti e, come direbbe sant'Agostino, fare sempre e tutto solo per amore, con l'amore di Cristo stesso. Solo in questo modo si apriranno ai nostri occhi le infinite situazioni in cui mettere in pratica la legge dell'amore, anche al di fuori delle occasioni "standardizzate" che già conosciamo, e che pensiamo ci bastino «per avere in eredità la vita eterna» (v. 17).
Ma l'episodio evangelico potrebbe essere anche il paradigma di quelle circostanze in cui al cristiano è chiesto di troncare, senza stare a pensarci troppo, situazioni di comodo che mettono a rischio (o l'hanno già fatto) la propria coerenza cristiana. Quelle in cui si può perdere l'onestà, quelle che sono di danno al proprio prossimo, oppure alla propria integrità morale e affettiva. In questi casi non si può tentennare, occorre rapidità nella decisione, serve il coraggio di saper tagliare i ponti con tutto ciò che rende l'uomo non solo meno cristiano, ma, di fondo, meno umano, meno solidale con ciò che la stessa natura umana (la propria e quella degli altri) è e richiede. Insomma, il distacco "coraggioso" che Gesù domanda a chi vuole seguirlo, non è solo quello dalle cose, ma in realtà, da se stessi. Le cose, in fin dei conti, ci piacciono e ci tengono avvinghiati ad esse perché pensiamo ci procurino un qualche bene, soddisfino un nostro bisogno, plachino i nostri desideri.  Siamo attaccati a noi stessi e per questo siamo attaccati alle cose. Diamo loro il potere di "sfamarci".

Perdere per trovare 

«Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9, 24). 
La chiave per superare l'ostacolo in cui il nostro cuore si incaglia è proprio in queste parole. Se il cristiano si "attacca" realmente a Gesù,  riuscirà (poco per volta, o radicalmente) a staccarsi da se stesso e quindi anche dalle cose. Saprà che il Padre è un Dio provvidente, che pensa ai bisogni dell'uomo (come Gesù sottolinea in Mt 6, 19-34, invitando i discepoli a non preoccuparsi per le necessità materiali) e capirà che l'unica cosa che conta è accumulare tesori in cielo, dove la ricompensa del Padre sarà inimmaginabile, stabile, indistruttibile (Mt 6,19-20), per chi avrà veramente seguito suo Figlio. Gesù lo dice a Pietro: «cento volte tanto e la vita eterna» (Mt 19,29).

Ogni momento è buono per il bene

Come si segue Gesù? Solo pregando, partecipando all'Eucaristia? No, solo questo non basta. Gesù, al dottore della Legge che lo interroga sul comandamento più grande" (cfr. Mt 22,36) risponde indicandone due: amare Dio con tutto se stessi, amare il prossimo come se stessi. L'amore del prossimo passa attraverso ciò che io posso fare per lui: non solo preghiera, ma anche azioni concrete. Se amo me stesso al punto di capire che Dio è il mio unico vero bene, allora non posso non voler portare Dio agli altri, attraverso ogni forma di bene nei suoi confronti: preghiera, vicinanza, aiuto.
La parabola dei lavoratori presi a giornata (Mt 20, 1-16), riletta in chiave "feriale", non solo con riferimento alla vita eterna, sottolinea proprio come non sia mai troppo tardi per lavorare nella vigna del Signore. In questo lavorare c'è, appunto, la preghiera, ma c'è anche l'azione: c'è il lavoro del bene "a giornata" e c'è quello "dell'ultima ora". L'importante è rispondere generosamente alla chiamata del Signore, in qualunque momento essa arrivi. È la vita quotidiana che ci pone dinanzi a questa necessità, nella sua alternanza di giornate in cui siamo chiamati a renderci presenza amorosa per il nostro prossimo in maniera continua e quella in cui solo in determinati momenti suona la richiesta di una gentilezza, di un aiuto, di una parola di conforto. Il coraggio del cristiano è forse più evidente proprio quando il campanello della chiamata suona quando meno ce lo si aspetta, quando si è impegnati in cose apparentemente più importanti, quando si è distratto o svogliati, quando si sta vivendo un momento di apatia o di tristezza. È lì che si riconosce il cristiano forte, coraggioso, che nonostante tutto si rimbocca le maniche e accetta di lavorare, di essere l'operaio nella vigna del Signore. Anche quello dell'ultima ora, dell'ultimo momento. Perché ogni momento è importante per fare il bene, ogni momento è importante per amare di più. Ogni momento del nostro oggi determina l'eternità del nostro domani. 



venerdì 11 agosto 2017

Pensieri per lo spirito

I SEMI DA PIANTARE OGNI GIORNO
Perdere la vita per salvarla



Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; 
se invece muore, produce molto frutto. 
 Chi ama la propria vita, la perde 
e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 
(Gv 12, 24-25)

Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, 
ma perderà la propria vita? 
O che cosa un uomo potrà dare in cambio 
della propria vita? (Mt 16, 25-26)




La liturgia di agosto ci invita a riflettere per due giorni consecutivi sul tema della vita: una vita che può essere persa o guadagnata; amata nel modo giusto o in quello sbagliato; barattata per beni transitori oppure cercata e invocata al posto di ciò che non dura. La parola di Gesù è chiara: non siamo chiamati a essere seme gettato nella spazzatura, scartato come inutile o lasciato seccare all'aria. No, per noi Dio ha pensato ad altro, a essere cioè seme che, nel sacrificio di se stesso una volta interrato, diventa vita, produce frutto, un frutto che sarà, a sua volta, nutrimento ed esistenza per altri. 
L'immagine della sepoltura del seme rimanda a quella della sepoltura nella morte di Cristo che per il cristiano si attua «per mezzo del battesimo», come scrive san Paolo nella sua lettera ai Romani (Rm 6,4). Una sepoltura che implica il rinnegare ogni giorno il peccato per rimanere in quella vita nuova a cui si è stati chiamati, in attesa della personale risurrezione. Ma questa risurrezione si costruisce giorno dopo giorno, attraverso una serie di sepolture nella sepoltura, sepolture feriali che danno senso, vigore al proprio essere immersi nella morte di Cristo, generatrice di vita.
La scelta radicale per il Vangelo – la scelta radicale per Gesù – si manifesta anche in queste "morti quotidiane", sepolture del seme di ogni giorno, affinché proprio ogni giorno si produca frutto, la vita stessa sia vittoriosa e il guadagno parziale del quotidiano si accumuli per un guadagno finale, definitivo, eterno. Se si riuscisse a vivere pensando in questi termini alle rinunce che la vita ci chiede, ai piccoli e grandi sacrifici, ai gesti di amore che a volte ci sottraggono qualcosa, la nostra stessa esistenza cambierebbe. Sentirsi seme che muore è infatti sentirsi seme che vive, che si tramuta in qualcosa di più bello e più utile rispetto al seme stesso, che è solo l'inizio di una lunga avventura, di una catena di generazioni, una staffetta in cui il seme dà vita a frutti, e i frutti ad altri semi, e così in un ciclo lunghissimo, è possibile che la vita continui, bella, piena e... fruttuosa. 
Ogni giorno, dunque, abbiamo tra le nostri mani semi da piantare, mille occasioni dall'aspetto forse dimesso, quasi banale, ma che non vanno sprecate. Sono i semi da interrare, con generosità, in lungo e in largo sul terreno delle nostre 24 ore, sul campo dei incontri che richiedono il nostro tempo e la nostra generosità; nel giardino degli imprevisti e degli inconvenienti che implorano la nostra pazienza; nell'orto della famiglia che invoca attenzione, premura, sensibilità, sopportazione. Non è in gioco solo la nostra vita, ma anche quella degli altri. Solo se riusciremo a intravedere la vita oltre la morte saremo in grado di donare con gioia, nella certezza che il Dio che «ama chi dona con gioia» ricompenserà largamente chi largamente avrà seminato (cfr. 2Cor 9, 6-7), come ha fatto con il Figlio Unigenito, il seme vivente che ha dato la vita per la salvezza del mondo, per la vita di ogni uomo.