venerdì 24 marzo 2017

Riflessioni spirituali


UN AMORE CHE TIENE 
A FRENO LA LINGUA
L'olocausto delle parole, l'olocausto dell'amore

La risposta che uno scriba dà a Gesù in Mt 12, 28-34, e che la Liturgia della Parola ci propone nel venerdì della III settimana di Quaresima, offre uno spunto per parlare di quel "sacrificio grande, il più grande" a cui ogni uomo è chiamato: rinunciare a se stessi per gli altri. Come mettere in pratica questa donazione, anche per chi non è chiamato ad affrontare un martirio fisico, è la stessa Parola a dirlo. Un esempio? Frenare la lingua per amore.


Si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: 
«Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 
 Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, 
con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. 
Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. 
Non c’è altro comandamento più grande di questi». 
 Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, 
che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; 
amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza 
e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocàusti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: 
«Non sei lontano dal regno di Dio».

(Mc 12,28-34)




Rispondendo con saggezza alle parole di Gesù, lo scriba dimostra non solo una sapienza di tipo umano, ma anche una consapevolezza piena del messaggio dell'Antico Testamento sul tipo di sacrificio gradito a Dio.
Più volte, infatti, già nella Prima Alleanza, Dio sottolinea la necessità, per l'uomo, di non onorarlo solo con la bocca, ma con i fatti, affinché la lode all'Altissimo sia accompagnata dalla capacità di ascoltare il grido del povero, dell'orfano, della vedova, e dalla mancanza di azioni malvagie nei confronti del prossimo.

Il sacrificio gradito a Dio: lode, fedeltà, carità

Una sintesi di questo messaggio la si rintraccia nel Salmo 50, in cui Dio stesso invita l'uomo a offrire «come sacrificio la lode» e a camminare per la retta via (cfr. Sal 50,14; 23) perché a nulla vale presentargli sacrifici di altro tipo (come quelli sugli animali, prefigurazione del sacrificio di Cristo, Agnello immolato), né serve riempirsi la bocca con la Legge del Signore, se poi non la si mette in pratica, ma, addirittura si compie ogni tipo di azione malvagia (furti, adulterii, v. 18) e ci si dedica alla pratica della "chiacchera" e della calunnia, (v. 19-20), che papa Francesco ha inquadrato e inquadra ancora oggi in termini forti, sottolineandone la dimensione criminale [1], perché si uccide anche così, con le parole, con le calunnie. Cosa che in effetti la stessa Scrittura ricorda, nel dire più e più volte che occorre tenere a freno la lingua, perché «molti sono caduti a fil di spada, ma non quanti sono periti per colpa della lingua» (Sir 28,18). 
Il Nuovo Testamento torna sull'argomento, in vari modi, tanto attraverso le parole di Gesù stesso, quanto attraverso le varie epistole, specialmente quelle di Giacomo. 
Proprio il momento in cui Cristo fa riferimento al potenziale pericoloso insito nel parlare dell'uomo offre una chiave di lettura interessante: «io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: "Stupido", dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: "Pazzo", sarà destinato al fuoco della Geènna» (Mt 5,22).

Le parole possono condurre alla morte

Gesù associa il parlare empio, cattivo, a una condanna materiale o spirituale, evidenziando dunque gli aspetti negativi che la calunnia e la chiacchera possono procurare tanto a livello temporale quanto spirituale, in chiave escatologica.
La prospettiva da cui invita gli ascoltatori a porsi in ascolto non è quella di chi subisce il torto, ma di chi lo procura. Infatti, se è vero che la lingua uccide "moralmente" (e non solo, purtroppo) chi è fatto oggetto di falsa testimonianza, di spergiuro, di chiacchere, allo stesso modo, in una visione capace di andare oltre la sola esistenza terrena, il peccato commesso con la lingua si ripercuote sulla dimensione spirituale di chi ne se macchia, e richiede dunque una "riparazione" o una "condanna". 
Ma nell'Antico Testamento non mancano di essere sottolineate entrambe le posizioni, quella di chi colpisce con la spada, e di chi ne viene colpito. Il testo addirittura contiene un monito a non prestare ascolto alle chiacchere, perché anche questo è causa di rovina per l'uomo:

«Le dicerie di una terza persona hanno sconvolto molti,
li hanno scacciati di nazione in nazione;
hanno demolito città fortificate
e rovinato casati potenti.
Le dicerie di una terza persona hanno fatto ripudiare donne forti,
privandole del frutto delle loro fatiche.
Chi a esse presta attenzione certo non troverà pace,
non vivrà tranquillo nella sua dimora» (Sir 28,14-16).

 «Quando usiamo la lingua per parlare male del fratello e della sorella la usiamo per uccidere Dio» [2], di cui ogni uomo è immagine: ecco perché non soltanto la lingua usata male procura un danno temporale ad altri esseri umani, ma rischia di condannare anche chi le proferisce, e di immettere in un giro di falsità chi vi dà ascolto.
Il Siracide dunque ammonisce, e in un'apertura alla speranza rimarca che quanti pongono un sigillo sulle proprie labbra saranno scampati dal pericolo di perdere la propria anima: 
«Spaventosa è la morte che la lingua procura,
al confronto è preferibile il regno dei morti.
Essa non ha potere sugli uomini pii,
questi non bruceranno alla sua fiamma» (Sir 28, 21-22).

«Ama e fa' ciò vuoi»

Il danno delle parole scaturisce dal fatto che esse non sempre sono dettate dall'amore, ma da altri sentimenti e intenzioni, come Gesù stesso evidenzia, dicendo che «ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende impuro l'uomo» (Mt 15,18). E dal cuore provengono spesso desideri cattivi: «dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (Mt 15,19). 
Se si pone un freno alla lingua si offre a Dio un vero sacrificio: è una rinuncia al male che alberga inesorabilmente nel cuore dell'uomo, è l'olocausto del proprio istinto inclinato alle cose cattive, al bisogno (errato) dell'uomo di voler giudicare tutto, di farsi giustizia nel modo e nel tempo sbagliato, della sua presunta capacità di saper leggere eventi, dettagli, persone. 
Il rimedio può essere uno solo, quello che sant'Agostino compendia in poche parole: «Ama e fa' ciò che vuoi» [3]. Perché solo così, «se taci, taci per amore, se parli, parla per amore». «Tacere per amore e parlare per amore. Basterebbe questo, per ingarbugliare la valutazione di tanti nostri discorsi. Quante volte diciamo il vero, senza amore? Non solo perché lo facciamo con ira, nel modo sbagliato, ma perché quell’ira ci viene dalla superbia? Dalla volontà di parlare per affermare noi stessi, e non la verità di cui ci facciamo portatori. Quante volte non riusciamo a morderci la lingua, e crediamo di essere giustificati, perché “è giusto dire le cose come stanno”? Quante volte una notazione vera e giusta non è altro che il pretesto per toglierci un sassolino dalle scarpe? Quante volte il parlare di un fratello, il denigrarlo, anche senza menzogna, è solo il modo per mettere in luce noi stessi?
Sant’Agostino è chiaro: ogni verità esca dalla nostra bocca, per amore e con amore. Altrimenti saremo chiamati a rispondere di come abbiamo deturpato, strumentalizzato, offuscato quella verità. Se lo leggiamo bene, infatti, Agostino, benché non usi mai la parola “verità”, parla di amore e di verità insieme. Parla infatti di parole e di correzione, cioè, appunto, di verità. Ma sottolineando l’amore. Tanto che alla fine della frase, dopo l’invito a correggere per amore, invita al perdono: che non è l’abdicazione ad un giudizio, ma il riconoscimento che ogni giudizio umano non definisce e non conclude. Perdono il prossimo quando ho chiaro che non è riducibile alla sua colpa, al suo errore del momento, e che io che giudico, anche giustamente, non sono Colui che solo ha il potere e il diritto di un giudizio definitivo» [4].
Il controllo della lingua può diventare dunque un bell'esercizio di quaresima, in cui si è invitati a rafforzarsi nella capacità di perdonare e di chiedere perdono, nella carità verso il prossimo, nell'amore verso un Dio che non si è limitato alle "parole", Lui che solo poteva usarle per condannare tutta l'umanità peccatrice, ma è passato ai fatti concreti, con la donazione totale sulla Croce, racchiudendo in questo culmine una vita in cui le parole e i silenzi sono scaturiti sempre e soltanto da una cosa: l'amore infinito dell'Uomo-Dio per ogni creatura.
«Sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene»[5].



NOTE

[1] Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sancta Marthae, 13 settembre 2013.
[2] Sant'Agostino.
[3] Francesco, Ult. cit. 
[4 ]Francesco Agnoli, Ama e fa' ciò che vuoi (Sant'Agostino), in Il Foglio, 25 settembre 2014.
[5] Sant'Agostino.


domenica 19 marzo 2017

TRIDUO A SAN GIUSEPPE 2017/ 3


SAN GIUSEPPE UOMO, SPOSO, PADRE
Il progetto familiare di Dio nella storia di Giuseppe 


In questo triduo a san Giuseppe vi invito a riflettere sul tema della famiglia, prendendo spunto da due testi: l'«Amoris Laetitia di papa Francesco» e «Il signore dei sogni» di don Mauro Leonardi. Ricordo a tutti che quest'anno la solennità liturgica in onore di san Giuseppe si celebrerà lunedì 20 marzo, in quanto il 19 coincide con la terza domenica di quaresima.


Ave o Giuseppe uomo giusto, 
Sposo verginale di Maria e padre davidico
del Messia; tu sei benedetto fra gli uomini,
 e benedetto è il Figlio di Dio che a te fu affidato: Gesù.
San Giuseppe, patrono della Chiesa universale,
custodisci le nostre famiglie nella pace e nella grazia divina, 
e soccorrici nell'ora della nostra morte.
Amen



«La madre che lo porta nel suo grembo ha bisogno di chiedere luce a Dio per poter conoscere in profondità il proprio figlio e per attenderlo quale è veramente. 
Alcuni genitori sentono che il loro figlio non arriva nel momento migliore. 
Hanno bisogno di chiedere al Signore che li guarisca e li fortifichi per accettare pienamente quel figlio, per poterlo attendere con il cuore. 
È importante che quel bambino si senta atteso. Egli non è un complemento 
o una soluzione per un'aspirazione personale. 
È un essere umano, con un valore immenso e non può venire usato per il proprio beneficio. Dunque, non è importante se questa nuova vita ti servirà o no, 
se possiede caratteristiche che ti piacciono o no, se risponde o no ai tuoi progetti 
e ai tuoi sogni. Perché "i figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile. 
Un figlio lo sia ama perché è figlio". L'amore dei genitori è strumento dell'amore 
di Dio Padre che attende con tenerezza la nascita di ogni bambino, 
lo accetta senza condizioni e lo accoglie gratuitamente».

(Amoris Laetitia, n. 170)



Il bambino che è Figlio di Dio, ma che è anche figlio di Maria, e che è chiamato a essere anche figlio di Giuseppe, sembra fare irruzione nella storia di quest'ultimo in maniera totalmente inattesa. Quando questo accade, Maria rischia la lapidazione o il ripudio segreto, l'assenza di Giuseppe, il crescere da sola quella creatura in arrivo. Giuseppe rischia di vedere andare in frantumi tutti i suoi sogni sull'amore di coppia, sul calore di una famiglia, su una vita tranquilla attorno al focolare domestico.
Eppure, lo abbiamo già compreso nei giorni precedenti del triduo, l'amore consente a entrambi di superare una visione distorta del figlio inatteso, e di vederlo come un bambino donato. La loro esperienza diventa dunque contemporanea, e di grande importanza, anche per la società contemporanea, in cui tanto si parla dei figli come un diritto da soddisfare a ogni costo, oppure un qualcosa di cui disfarsi quando esso è sgradito, come nel caso di malformazioni, frutto di violenze, gravidanze  che intralciano i progetti lavorativi, le ambizioni per una carriera di successo.
Invece Gesù, per Maria e Giuseppe, è un dono: lo è per Maria, alla quale non toglie il suo ruolo di sposa, seppure in una dimensione verginale e, anzi, la arricchisce della funzione materna; lo è per Giuseppe, al quale non sottrae il suo ruolo di sposo, di capofamiglia, e, anzi, addirittura lo ricolma della dignità di custode e padre del Redentore, nonché patrono della Chiesa, come anche il Magistero della Chiesa ha sottolineato. Il figlio sarà figlio di entrambi, e così a entrambi viene chiesto di accoglierlo, nonostante il modo straordinario e inaspettato con cui entra nelle loro vite. E questa accoglienza passa per la gratuità: il dono è tale in se stesso, non perché promette qualcosa in cambio, anzi, anche se comporta fin dall'inizio dei sacrifici.
La madre è certamente la prima a sentire in lei la nuova vita che prende corpo, così come Maria è la prima ad avere l'annuncio di quel nimbo straordinario in arrivo, ma poi, come in qualsiasi famiglia, viene chiesto il coinvolgimento di Giuseppe. Non un coinvolgimento "materiale", ma affettivo, psicologico, interiore, che poi si tradurrà anche in gesti concreti e "legali": accettare quel figlio, farsene carico, diventarne educatore e guida.
«Quando l'Angelo parlerà con Giuseppe in sogno gli dirà: "Tu lo chiamerai Gesù" (Mt 1,21), invece quando aveva parlato con Maria nell'Annunciazione, aveva detto proprio a lei, alla madre, e solo a lei, di dare il nome al Figlio: "Lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù" (Lc 1,31). 
Si passa cioè dalla madre al padre. Quando si affida il compito di dare il nome alla madre Giuseppe era già sposo di Maria, ma ancora non era il "padre" – anche se solo "legale" – di Gesù. Infatti, imporre il nome al figlio era qualcosa che doveva fare il padre.
Poi nel sogno a Giuseppe, il compito era passato a quest'ultimo, come avveniva per ogni uomo che fosse il padre legale. Era successo "qualcosa".

Giuseppe non ha davanti a sé "solo" la sua sposa, ha davanti a sé sua moglie che è incinta: ha dinanzi a sé Maria e il bimbo. 
Giuseppe ancora non sa Chi è quel Figlio che vive nel seno della sua sposa, eppure già la Trinità sta operando. 
Secondo la Legge, Giuseppe avrebbe dovuto rinchiudere la sposa nello schema e nella logica dell'adulterio.
Giuseppe è giusto perché ha corso il rischio di stare davanti a Jahvè con quel "mistero" che era sua moglie incinta. 

Giuseppe decide di andare contro la Legge. Quest'azione è opera della Grazia e quindi ha origine dal Verbo Incarnato e giunge al destinatario attraverso Maria». Dov'era Maria mentre Giuseppe pensava a cosa fare? «I Vangeli non lo dicono, però Giovanni scrive che Maria stava sotto la croce di Gesù. Penso» [1] – scrive sempre don Mauro Leonardi – «che Maria avesse già sperimentato altre volte lo stabat della Croce. E forse l'inizio dell'apprendistato era stato proprio quel trovarsi a guardare il tormento di Giuseppe di fronte al Mistero: quando non poteva dir nulla al proprio sposo, perché quel coinvolgersi di Giuseppe con lei doveva essere libero; quando quel pensare o pregare dello sposo era una faccenda che si svolgeva tra lui e Dio. Allora lei poteva solo stare e aspettare, proprio come un sabato santo.
Vivere è sempre una questione di libertà e se c'è di mezzo Dio nei sogni, la libertà è la prima cosa che si vede, ancor prima dell'angelo. Lo vediamo al momento del sogno per rientrare dall'Egitto. Il pericolo è passato, dice l'angelo. È passato Erode ma c'è il figlio, dice Giuseppe. E un padre di famiglia non rischia. Così Giuseppe sale su un asino, e decide itinerario e casa (cf Mt 2, 19-23). La fede lo muove, la responsabilità personale lo guida» [2]. 
Giuseppe ha accolto il dono che Gesù è, lo ha fatto gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio. E senza chiedere nulla in cambio spenderà il resto della propria vita per custodire Maria, per custodire il loro bambino, il Figlio di Dio nato nella loro famiglia, nato uomo tra gli uomini.

[1] Mauro Leonardi, Il signore dei sogni, Ares, 2015, pp. 91-93; 105

[2] Ibidem, 106.

sabato 18 marzo 2017

TRIDUO A SAN GIUSEPPE 2017/ 2


SAN GIUSEPPE UOMO, SPOSO, PADRE
Il progetto familiare di Dio nella storia di Giuseppe 


In questo triduo a san Giuseppe vi invito a riflettere sul tema della famiglia, prendendo spunto da due testi: l'«Amoris Laetitia di papa Francesco» e «Il signore dei sogni» di don Mauro Leonardi. Ricordo a tutti che quest'anno la solennità liturgica in onore di san Giuseppe si celebrerà lunedì 20 marzo, in quanto il 19 coincide con la terza domenica di quaresima.


Ave o Giuseppe uomo giusto, 
Sposo verginale di Maria e padre davidico
del Messia; tu sei benedetto fra gli uomini,
 e benedetto è il Figlio di Dio che a te fu affidato: Gesù.
San Giuseppe, patrono della Chiesa universale,
custodisci le nostre famiglie nella pace e nella grazia divina, 
e soccorrici nell'ora della nostra morte.
Amen



«La gravidanza è un periodo difficile, ma anche un tempo meraviglioso. La madre collabora con Dio perché si produca il miracolo di una nuova vita. Ogni bambino che si forma all'interno di sua madre è un progetto eterno di Dio Padre e del suo amore eterno. Ogni bambino sta da sempre nel cuore di Dio, e nel momento in cui viene concepito si compie il sogno eterno del Creatore. La donna in gravidanza può partecipare a tale progetto di Dio sognando suo figlio: tutte le mamme e tutti i papà hanno sognato il loro figlio per nove mesi. Non è possibile una famiglia senza il sogno. Quando in una famiglia si perde la capacità di sognare, i bambini non crescono e l'amore non cresce, la vita si affievolisce e si spegne".».

(Amoris Laetitia, nn. 168-169)



La dimensione del "sogno" può rivestirsi di molte sfaccettature, assumendo tante e diverse interpretazioni. La psicanalisi ce ne darebbe una spiegazione, la razionalità un'altra ancora, la fede, forse, una ulteriore. 
Si può sognare a occhi chiusi, come riflesso e liberazione dell'inconscio o solo come espressione di fantasia; ma si può anche sognare qualcosa che ci aiuta a vivere meglio, a capire qualcosa in più della realtà che ci circonda. I santi hanno spesso visto in sogno qualcosa del futuro e non per caso, ma per permissione divina, di quel Dio che usa anche la modalità del sogno per comunicarsi; Giuseppe in sogno riceve la propria annunciazione e attraverso questo segno-sogno divino, capisce come agire nei confronti di Maria (e di conseguenza del bambino in arrivo).
Si può sognare anche a occhi aperti: desideri, speranze, progetti... tutto può passare nella mente e nell'animo umano, dando vita a qualcosa che prima può prendere corpo solo a livello "irreale", ma che poi può tradursi in fatti concreti. 
Giuseppe e Maria avranno sognato anche così, pensando alla loro vita di coppia, alla loro esperienza di genitori; guardando quel bambino così diverso dagli altri, eppure così uguale; pensando al futuro d'Israele, che passava anche attraverso le loro giovani, semplici vite di ordinarie creature di un popolo in attesa. 
Non perché sognatori, sono diventati meno concreti, meno reali, meno veri. Al contrario, il loro sogno è diventato creatività capace di generare qualcosa di buono, qualcosa di bello, qualcosa da comunicare agli altri. Dalla loro capacità di accettare la sfida che il sogno comporta, è nato il loro , personale e poi di coppia, al progetto di Dio, un progetto che hanno percorso e compreso passo passo, nella fede, come ogni credente in cammino. 
Sogno potrebbe tradursi allora con tante parole: speranza, fede, fiducia, positività, ottimismo, desiderio di migliorare le cose. 
Il sogno in sé non è negativo, lo diventa solo se si esce fuori dal binario del piano di Dio. Questo non accade a Giuseppe e Maria, anzi, il sogno e la preghiera, che nelle loro vite vanno di pari passo, rendono possibile l'equilibrio. La preghiera rende l'orecchio più capace di ascoltare la voce di Dio che parla anche attraverso il sogno.
«Giovanni Paolo II scrisse [che] "nelle parole dell'annunciazione notturna Giuseppe ascolta non solo la verità divina circa l'ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì la verità circa la propria vocazione (Redemptoris Custos, n. 19). Egli aveva dinanzi a sé il Redentore e la prima redenta – che sono già "tutta la Chiesa" - e così ci mostra la strada che ciascuno di noi deve percorrere per entrare "nella Chiesa" cioè nel rapporto con Gesù e Maria. Egli è il primo a entrare in quella Comunione. Varca una soglia, apre la strada. Quello che vedremo in lui è ciò che deve compiersi in ciascuno di noi» [1].
La vita di ogni credente è una vita in cui Dio desidera che si realizzi il suo sogno più grande: quello della salvezza. Come Giuseppe, ciascuno di noi è chiamato a varcare la soglia della comunione, a vivere sempre più pienamente la propria dimensione di membri della Chiesa. Dobbiamo acquistare una sorta di sguardo trasognato al positivo: non vivere unicamente nella dimensione del sogno, tanto da dimenticare il presente, ma operare una trasfigurazione della realtà attuale, ben sapendo che essa è passaggio per una vita futura, più piena, per la realizzazione del sogno di Dio; ben sapendo che i volti e le cose che ci circondano sono già un riflesso dell'amore e della bellezza di Dio.
E questo implica accettare anche gli "imprevisti" dell'esistenza, le difficoltà che certe scelte impongono: «Non dobbiamo pensare che Giuseppe sia bravo nel trovare soluzioni, o docile. O, ancor più banalmente, che semplicemente "faccia ciò che deve fare" un uomo con una moglie, oltretutto una moglie come Maria. È vero che a noi sembra che la vita di Giuseppe abbia svolte inaspettate, ma ciò è dovuto alla nostra prospettiva. Noi vediamo dall'esterno la sua vita e ci sembra abbia svolte inattese. Per Giuseppe invece quella è semplicemente la sua vita. Vede la sua vita e quella vive.
Noi siamo il nome che portiamo, viviamo la vita che abbiamo, ci verrà chiesto conto della storia che abbiamo vissuto.
La vita di Giuseppe è contenuta nel Vangelo, cioè la vita dello sposo di Maria è buona novella, è Vangelo. E lui la vive così.
Vive la sua vita come una buona novella che non è suddivisa per capitoli da sottolineare e da applicare alle sue giornate, ma come una parte della storia che Dio ha con l'uomo. Quella parte è sua. Quella è la sua parte. 
E lui la vive come si presenta: Annunciazione di Maria, angeli che popolano le sue notti e i suoi pensieri. Coricarsi, alzarsi, parlare, ascoltare, lasciare andare, aspettare, sposarsi, andare di nuovo, cercare riparo, attendere Gesù, prenderlo, caricarlo, tornare indietro, Nazareth, Egitto. 
Insomma, vita» [2].

NOTE

[1] Mauro Leonardi, Il signore dei sogni, Ares, 2015, p. 86.
[2] Ibidem, pp. 86-87.

venerdì 17 marzo 2017

TRIDUO A SAN GIUSEPPE 2017/ 1


SAN GIUSEPPE UOMO, SPOSO, PADRE
Il progetto familiare di Dio nella storia di Giuseppe 


In questo triduo a san Giuseppe vi invito a riflettere sul tema della famiglia, prendendo spunto da due testi: l'«Amoris Laetitia di papa Francesco» e «Il signore dei sogni» di don Mauro Leonardi. Ricordo a tutti che quest'anno la solennità liturgica in onore di san Giuseppe si celebrerà lunedì 20 marzo, in quanto il 19 coincide con la terza domenica di quaresima.


Ave o Giuseppe uomo giusto, 
sposo verginale di Maria e padre davidico
del Messia; tu sei benedetto fra gli uomini,
 e benedetto è il Figlio di Dio che a te fu affidato: Gesù.
San Giuseppe, patrono della Chiesa universale,
custodisci le nostre famiglie nella pace e nella grazia divina, 
e soccorrici nell'ora della nostra morte.
Amen



«Di fronte a quelli che proibivano il matrimonio, il Nuovo Testamento insegna 
che "ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato" (1 Tm 4,4). 
Il matrimonio è un "dono" del Signore (cfr 1 Cor 7,7). 
Nello stesso tempo, a causa di una tale valutazione positiva, 
si pone un forte accento sull'avere cura di questo dono divino: 
"Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia" (Eb 13,4)».

(Amoris Laetitia, n. 61)



Nella storia di Giuseppe e Maria vita matrimoniale e vita verginale si coniugano. Il talamo di questi due sposi rimane integralmente puro, letteralmente "senza macchia". 
È vero, la vita di questo giovane uomo è apparentemente stravolta. Si ritrova con una moglie incinta, che rimane vergine. 
Si ritrova con un figlio che non è frutto del suo seme.
Giuseppe vive nel suo intimo, agli inizi della storia narrata dal Vangelo, una passione dolorosa per questa notizia-bomba che viene a turbare la sua serenità familiare. Un dolore che però non è così forte da impedire all'amore di prevalere: ecco che allora egli decide di ripudiare Maria "in segreto", per evitarle la lapidazione. Qui interviene Dio, che attraverso un angelo annuncia a questo giovane falegname il proprio progetto, lo invita a non avere timore di accogliere il dono che è Maria, il dono che è Gesù. Il dono che è dunque il suo matrimonio, la sua famiglia.
Giuseppe è  coinvolto in un piano certamente più grande di lui, ma non per questo insopportabile. Liberamente accetta di lasciarsi coinvolgere da Dio. Si fida di Lui, si fida della sua sposa, si fida di quel bambino in arrivo. In questo senso, la sua vita è una vita intrisa ancora una volta di passione, ma stavolta intesa come tensione totale, donativa, oblativa a favore di altri.
Perciò il peso di una tale scelta non diventa schiacciante. Giuseppe dà e riceve; si offre, ma in realtà è un Altro che si sta offrendo a lui, e in questa offerta è compresa anche la sua sposa, che Dio stesso pensa per Giuseppe, tanto da porgliela accanto, affidandola alla sua custodia tenera, premurosa e forte. Giuseppe è scelto per Maria, Maria è scelta per Giuseppe. Entrambi sono scelti per Gesù. Ciascuno di essi è un dono per l'altro.
Giuseppe condivide qualcosa del Dio-Amore: è un uomo appassionato, e vive il proprio tormento e la propria scelta anche "nella" propria carne. Una carne che rinuncia ai piaceri leciti del matrimonio, per essere dono d'amore più elevato, più sublime;  una carne che probabilmente si lascia penetrare dal dolore che agghiaccia, fa tremare, lascia spossati. Giuseppe vive su di sé e in sé il tormento che si sarebbe avvinto a ogni essere umano nella sua situazione.
Ma Giuseppe è appassionato proprio perché, come poi farà Gesù-Uomo sulla croce, si dimostra capace di amare fino a superare il proprio dolore alla luce della fede; capace di accogliere certamente con stupore, e magari anche con "sollievo" ed entusiasmo, la rivelazione di un Dio che scioglie ogni suo timore, e gli conferma il suo volere a proposito del suo progetto di vita matrimoniale con Maria. La carne di Giuseppe potrà sperimentare così, nel dono unico del matrimonio e della famiglia, la gioia che fa brillare gli occhi, che fa piangere di felicità, commuovere di tenerezza e che sa tramutarsi in abbracci e sorrisi.
Don Mauro Leonardi, in un suo libro, scrive che proprio grazie a Maria «Madre di Dio, il padre legale di Gesù riesce a vivere appieno il senso della propria esistenza. Ella aiuta il proprio sposo a vivere secondo un modo che è quello di Dio. Poiché Egli è eterno presente, se noi vogliamo vivere nelle sue orme per essere a Sua immagine dobbiamo vivere un presente vigile. Come si fa a essere vigili come Giuseppe? Risposta: andando a dormire. "Dormire", in questo contesto, significa lasciarsi andare alle mani di Dio, al sogno di Dio. Il nostro sogno si realizzerà perché, in ultima analisi, è il sogno di Dio» [1]. 

NOTE
[1] (Mauro Leonardi, Il signore dei sogni, Ares, 2015, pp. 60-61. 

mercoledì 1 marzo 2017

Pensieri per lo spirito


DAL DESERTO ALL'OASI PERMANENTE
Il cammino di quaresima come "umanizzazione"


La Quaresima è tempo di digiuno, preghiera, carità. È tempo di deserto, in cui trovarsi "apparentemente" soli per cercare di ascoltare se stessi, gli altri e Dio. È tempo per mettersi in cammino, seguendo le coordinate che il Vangelo indica al credente, e provare ad attraversare questo deserto, cercando di raggiungere l'oasi "permanente".



«All´inizio di questo tempo di Quaresima la Parola di Dio si rivolge di nuovo a noi, con forza ed insistenza, attraverso l´invito del profeta: 
"Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, 
perché egli è misericordioso e benigno, 
tardo all´ira e ricco di benevolenza" (Gioele 2,12- 13).
Accogliere questo appello al ritorno - cioè alla conversione - 
comporta mettersi in cammino, consapevoli che per incontrare Dio e il suo amore 
occorre avventurarsi nel "deserto". 
Come vi ha condotto Gesù, all´inizio della sua missione (Luca 4,1), così lo Spirito vuole che ciascuno di noi si inoltri nel deserto, 
per mettersi a confronto con se stesso, con il proprio peccato 
e con la Parola che salva».

(Messaggio della presidenza della CEI,  2 marzo 1992)





Avventurarsi nel deserto significa mettersi in cammino. Un cammino inizialmente silenzioso, in cui principalmente si ritorna ad ascoltare Dio – quel Dio che parla «nel segreto» (Mt 6,6) –, ma anche se stessi; o forse, paradossalmente, è raggiungendo le radici del proprio io che si riesce a raggiungere anche Dio e, meglio ancora, a lasciarsi raggiungere da Lui.
Quello che il cristiano è chiamato ad attraversare è infatti un deserto che palpita di umanità, nell'incontro straordinario – ma che può avvenire nell'ordinarietà della vita – tra l'umano e il divino, tra il materiale e lo spirituale, tra il tempo e l'infinito.

Luogo e spazio di desiderio di vita

Inoltrarsi tra le dune di sabbia significa calarsi in un tempo a-spaziale e in uno spazio a-temporale in cui, nella solitudine, riemerge o si rinforza un'umanità ora dimenticata, ora sopita. 
Il deserto è silenzioso solo all'apparenza, poi si colma di noi stessi, di ciò che si ha dentro, delle domande, dei bisogni e delle risposte umane e non ai desideri del cuore. Questo perché il deserto non consente all'uomo di barare. È la dimensione degli istinti primordiali di ogni creatura vivente: la fame, la sete, il caldo e il freddo (quando di notte le temperature calano in picchiata), segni di un'aspirazione innata e ancestrale: quella alla vita, che innesca un meccanismo strenuo per la sopravvivenza. Il deserto – proprio perché tale, inospitale e sterile – costringe a imparare (o a ricordare) che sebbene essere unico tra tutte le specie viventi, l'uomo non è capace di bastare a sé stesso neppure per sopravvivere su un piano puramente materiale. 
Questa è la prima tappa per passare dalla solitudine all'insieme, perché è già un entrare in empatia con i propri simili, animati dagli stessi istinti, caratterizzati dagli stessi bisogni.
Ma il deserto è anche la dimensione in cui emerge o riemerge qualcosa che connota non tutte le creature, ma solo alcune di esse: l'istinto gregario, il bisogno della comunione con altri simili a se stessi. È nella solitudine del deserto che si comprende l'importanza della relazionalità, della capacità di commisurarsi con altri, di fare comunità e/o comunione. Non più solo l'istinto alla vita nella sua componente esteriore, non solo una solidarietà esteriore, ma in qualcosa che diviene anche interiore, espressione di amicizia, di amore, di fratellanza.
E, infine, il deserto è la realtà in cui si sperimenta il bisogno di porre dinanzi all'io un Tu diverso da ogni altro tu. Una caratteristica propria dell'essere umano, dell'homo (consapevolmente o meno) viator, che non può essere «un'isola»[1] senza ricordare che ognuno «è parte del continente»[2]. 

Immerso tra sabbia e vento, tra cielo e terra rossa, tra sole e stelle, l'uomo non può non interrogarsi sulle cose più intime e profonde che ciascuno in modo diverso, è in grado di ritrovare in se stesso: le domande di senso sull'esistenza, sulla propria origine, sul fine delle cose create, sulla meta dell'uomo. 
Si è dinanzi alla potenziale massima espressione dell'istinto alla vita, a un'esistenza che non si riduca al bisogno di beni da consumare o di relazioni da coltivare, ma che si esprima in una infinitezza reale per quanto ancora invisibile. L'unica capace di appagare realmente l'istinto di conservazione, il desiderio di felicità, la sete di vita vera. L'unica in cui la pienezza e la bellezza dell'essere uomini, del fare comunione, dell'incontrarsi con la magnificenza del creato possano trovare una risposta definitiva. L'unica che possa rappresentare un'oasi permanente per l'uomo in ricerca.

Farsi nomadi 

«Il carnato del cielo / sveglia oasi / al nomade d'amore» [3] scriveva Ungaretti in una sua lirica.
È il mistero che si realizza anche nel deserto: laddove tutto sembra vuoto e taciturno, corroso dal sole e arso dalla siccità; laddove l'uomo è un pulviscolo nella sconfinata distesa di sabbia all'apparenza sempre uguale; laddove il giorno e la notte si manifestano in tutta la loro potenza, lì l'umanità palpita di bisogni e di domande, su ciò che si è, su ciò che si cerca, sul chi si vuole incontrare, sulla necessità di lasciarsi avvicinare dagli altri e dall'Altro. Nel deserto l'uomo torna a farsi interrogare dalla bellezza, anche da quella di un cielo terso e luminoso su un paesaggio fintamente immutabile.
Il cielo, nella sua maestosità, nella sua intensità di colore e di fenomeni atmosferici, può essere metafora, simbolo della bellezza di ri-scoprirsi uomini, unione misteriosa e affascinante di carne e di sangue, di anima e di corpo; segno dello splendore dell'aver bisogno di rapporti con altri essere umani; desiderio di un Altrove che abbia la caratteristica del per sempre. 
Dove c'è un cielo c'è anche altra terra, qualcosa oltre la distesa di sabbia e di niente che circonda il deserto. 
Da questa bellezza può nascere il desiderio di confrontarsi con il deserto, accogliendo la sfida del sentirsi e farsi nomade: il deserto non è infinito, ma occorre attraversarlo per trovare il non-deserto, la «terra dove scorrono latte e miele» (Es 3.8). La terra su cui si riflette sempre il cielo, ma un cielo che, pur uguale, è già diverso.

Attraversare il deserto

La Quaresima viene dunque ogni anno a ricordarci che abbiamo bisogno di un deserto, per ritrovare il cielo e la terra nuova (cfr. Ap 21,1), già in questa nostra esistenza storica.
Senza deserto si rischia di dare per scontate troppe cose, dal cibo al vestito, dai rapporti umani a quelli con Dio.
Solo facendo un po' di sano vuoto dentro e fuori di noi, spegnendo le tempeste di suoni, parole, frivolezze, preoccupazioni e impegni che ci attanagliano, è possibile recuperare qualcosa della dimensione umana e spirituale che, inevitabilmente, passo dopo passo si tende a perdere nell'ordinarietà della vita.
Per entrare in questo deserto, così necessario all'uomo che vuole rinnovarsi e ricaricarsi, la Chiesa offre le coordinate del digiuno, dell'elemosina e della preghiera. Sono in realtà le coordinate che Gesù stesso indica nel Vangelo proclamato il Mercoledì delle Ceneri (Mt 6,1-6;16,18), ma sono anche quelle coordinate che lo hanno orientato nella sua vita, e particolarmente nel corso delle tentazioni da lui vissute nei quaranta giorni trascorsi nel deserto (Mc 1, 12-13).
Il digiuno costringe ad ascoltare il proprio corpo, che a volte ha desideri diversi dalla buona volontà spirituale di privarsi del cibo, e conduce a farsi solidali con chi è meno fortunato di noi, in un certo senso favorendo il passaggio alla seconda coordinata, quella dell'elemosina; la preghiera consente di ravvivare la dimensione interiore e spirituale dell'uomo, e nel rivolgerci al Padre «nostro» che è nei Cieli, ci fa recuperare anche il senso comunitario della nostra fede, cosa che conduce ad ampliare il raggio dell'elemosina, estendendola alle tante forme di carità (materiale e non) attraverso cui è possibile raggiungere il proprio prossimo. Così fare il deserto rende l'uomo più uomo, e meno superuomo. Simile ai suoi simile, capace di compatire nel sentimento e nell'azione chi manca del cibo, del vestito, dell'amore. 
Fare il deserto rende l'uomo più capace di tendere la mano per accettare la misericordia del fratello, ma anche – e soprattutto – quella infinita di Dio.
Il deserto, mettendo l'essere umano dinanzi ai suoi limiti, ma anche dinanzi al suo potenziale, dovrebbe condurre all'umiltà e al coraggio di mettersi in viaggio per tutta la vita, anno dopo anno, non da soli, ma in compagnia: di se stesso, dei fratelli, di Dio.


NOTE

[1] John Donne, Nessun uomo è un isola.
[2] Ibidem.
[3] Giuseppe Ungaretti, Tramonto.