lunedì 30 novembre 2015

Novena a Maria Immacolata, madre di misericordia /2


«SALVE, TUTTA SANTA»
L'Ave, Regina caelorum


Prosegue la riflessione sul mistero di Maria Immacolata, attraverso le più antiche preghiere mariane in cui la sapienza e la fede dei credenti hanno saputo coniugare Bibbia, teologia e fiducia nella Madre di Dio. Oggetto di questo nuovo approfondimento è l' "Ave, Regina caelorum", preghiera che viene, al pari del "Sub tuum praesidium", inserita tra le "antifone" a scelta al termine della Compieta.




Ave, regina dei cieli,
ave, signora degli angeli; 
porta e radice di salvezza, 
rechi nel mondo la luce. 
Godi, vergine gloriosa,
bella fra tutte le donne; 
salve, o tutta santa,
prega per noi Cristo Signore.
_________________________

Ave, Regina caelorum, 
ave, Domina angelorum, 
salve, radix, salve, porta, 
ex qua mundo lux est orta.
Gaude, Virgo gloriosa, 
super omnes speciosa; 
vale, o valde decora, 
et pro nobis Christum exora.




UN CANTO DI LODE A MARIA

La preghiera «Ave, Regina caelorum» («Ave, regina dei cieli») risale al XII secolo. Pur se attribuita a san Bernardo, l'autore ne sarebbe in realtà ignoto. Rientra nel novero delle preghiere recitabili (a scelta) subito dopo Compieta, e, più precisamente, nel gruppo delle quattro antifone mariane (assieme alla «Salve Regina», al «Regina Coeli» e all'«Alma Redemptoris Mater»). In realtà non si tratta di un'antifona nel senso proprio del termine (non è infatti associata ad alcun Salmo), ma di un canto a Maria, originariamente scritto in relazione al mistero della sua assunzione in cielo. Questa preghiera era infatti l'antifona dell'ora nona di un Ufficio per la festa dell'Assunta. L'uso di cantare queste antifone mariane dopo la preghiera delle Ore risale al XVI, sebbene i quattro canti rimasti in uso ancora oggi (cui fu poi aggiunto, nel 1970, anche il «Sub tuum praesidium»), si trovassero già accorpati in un decreto del Capitolo Generale dei Francescani, riunitisi a Metz, nel 1249.  E furono proprio i Francescani a diffonderle attraverso il loro breviario.     

Sintesi biblica e teologica nella fede dell'orante

Sintesi biblica

«L'Ave, Regina Caelorum riproduce alcune delle lodi più belle rivolte alla Regina dei Cieli dall'Antico Testamento ("Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse", Is 11,1; "Questa porta rimarrà chiusa", Ez, 44,2) e dai Padri della Chiesa[1]. 
Maria è regina, signora, radice, porta! Queste parole richiamano delle allusioni bibliche utilizzate nell'antico inno Orientale, l'Akathistos [2]. Ella è salutata con parole di crescente intensità: ave, salve, gaude, valde. Queste sono forme di saluto, di acclamazione, che mostrano un aumento crescente di intensità e di stima nel saluto [3]».

Sintesi teologica

I titoli con i quali l'orante si rivolge a Maria sono tutti attribuiti a lei in relazione al mistero di Cristo. Maria è regina perché Cristo è re. La regalità di Maria è la regalità che ha ottenuto nel servizio e nell'umiltà. «Maria riflette la Sua regalità e, attraverso un cammino di fede, può aver parte in questa regalità, sia nella Sua agonia sulla terra - in quanto ella rimane ai piedi della Croce - sia nella sua gloria nel regno eterno. La sua scelta di essere Cristo-centrica e Genitrice di Dio, le conferisce una dignità al di sopra di tutti gli angeli. Lei è la radice di Jesse, da cui verrà il Salvatore. Il suo grembo è il porta da cui la vera Luce, Gesù Cristo, è nato» [4]. La gloria di Maria deriva dal fatto di essersi resa sempre docile e obbediente alla volontà di Dio, rispondendo con il suo «sì» a Lui, giorno dopo giorno.

Immacolata e misericordiosa

«Maria non solo genera Cristo, ma è anche stata colmata di grazia per mezzo di Lui e in vista di Lui; le è stata data la pienezza della bellezza. È la vergine gloriosa, la più amabile in cielo, "la più bella dove tutti sono belli". Tutti siamo chiamati a essere ricolmati di Cristo, Maria in maniera preminente, a causa del suo ruolo nel piano della salvezza. È la vita di Cristo, la sua grazia, Dio solo, che è bellezza al di là di ogni misura» [5].

L'immacolata: la tutta santa, la tutta bella

L'«Ave, Regina caelorum» invoca Maria quale «tutta santa». Ella ha ricevuto "in anticipo" la Misericordia Divina, fin dalla sua immacolata concezione, che la rende «piena di grazia». Infatti, come sottolinea il Magistero della Chiesa, «Maria, fin dal momento in cui fu concepita dai suoi genitori, è stata oggetto di una singolare predilezione da parte di Dio, il quale, nel suo disegno eterno, l’ha prescelta per essere madre del suo Figlio fatto uomo e, di conseguenza, preservata dal peccato originale. Perciò l’Angelo si rivolge a lei con questo nome, che implicitamente significa: “da sempre ricolma dell’amore di Dio”, della sua grazia. Il mistero dell’Immacolata Concezione è fonte di luce interiore, di speranza e di conforto. In mezzo alle prove della vita e specialmente alle contraddizioni che l’uomo sperimenta dentro di sé e intorno a sé, Maria, Madre di Cristo, ci dice che la Grazia è più grande del peccato, che la misericordia di Dio è più potente del male e sa trasformarlo in bene» [6]. 
Questo mistero di grazia in Maria, dunque, non deve allontanare il credente dalla speranza di poter raggiungere la "santità", quale espressione massima della misericordia di Dio che salva, rendendo «santi e immacolati» quanti accolgono la chiamata a essere suoi figli (cfr. Ef 1,4). Anzi, proprio il mistero della Vergine Immacolata ricorda che la santità è possibile alle creature: «Creatura come noi, anche Maria condivide con noi la possibilità del peccato: sostenuta dalla grazia del redentore, la sua volontà rimane però totalmente fissa in Dio. La sua immacolatezza si svela così possibilità di non peccare, e non, invece, impossibilità di peccare [7]. La concezione immacolata è davvero la trascrizione esistenziale di una proposta rivolta alla sua libertà, un qualcosa di iniziale, non affatto un dato finale, tale da dispensarla dal compito faticoso e doloroso di un autentico itinerario spirituale di ratifica e maturazione della sua particolare modalità di partenza. Come il battesimo cristiano non instaura una comunione con Dio già completa, bensì avvia un cammino di lotte e di dolori, tanto da essere chiamato sacramento della "iniziazione cristiana", così la concezione immacolata di Maria inaugura un cammino pasquale di autentica morte e risurrezione. A differenza di quanto succede per noi, tuttavia, Maria rispose in ogni momento al Padre con la totalità di se stessa: sicché la sua opzione per Dio, pur crescendo nel tempo, fu in ogni istante il massimo di quel che poteva essere in quell'istante; sempre, ovviamente, grazie alla iniziativa salvifica di Dio su di lei. Per questo si parla di santità totale» [8].

Misericordiosa

«La seconda parte dell'Ave, Regina caelorum indica chiaramente che Maria è la nostra Avvocata della grazia. Avvocata è un titolo che le è stato attribuito fin dai tempi antichi.
San Bernardo affermava che il Padre Eterno, desiderando mostrare tutta la sua misericordia, oltre a darci Gesù come nostro principale avvocato presso di lui, ci ha dato anche Maria come nostra avvocata presso Gesù» [9].
Maria, in quanto Madre, offre al credente l'opportunità di avvicinarsi a lei con maggiore confidenza e minor timore, di accettare «più facilmente l'amore misericordioso da parte di una madre» [10]. In tal modo «vedendo il volto di Maria possiamo vedere più che in altri modi la bellezza di Dio, la sua bontà, la sua misericordia. È Maria ad accompagnarci nella vita di ogni giorno. Noi la invochiamo "Regina del Cielo", sapendo che la sua regalità è come quella del suo Figlio: tutta amore, e amore misericordioso» [11].

                             

NOTE

[1] Anthony M. Buono, Le più grandi preghiere a Maria. Storia, uso, significato, Paoline, 2002 p. 67.

[2] Si tratta di uno degli Inni più famosi, tra quelli dedicati dalla Chiesa Ortodossa a Maria quale Theotokos, Madre di Dio. Si rimanda, per maggiori informazioni, al sito Maranatha.

[3] Ave, Regina Caelorum, Marian Antiphon for the time after the feast of the Presentation of the Lord and during Lent (traduzione dall'originale), Sito web dell'Internation Marian Research Institute dell'Università di Dayton.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Benedetto XVI, Angelus, 8 dicembre 2010.

[7] G. Colzani, Maria. Mistero di grazia e di fede, San Paolo, 1996, p. 226.

[8] Giorgio Gozzelino, Ecco tua Madre! Breve saggio di mariologia sistematica, Elledici, 1998, pp. 54-56.

[9] Anthony M. Buono, ult. cit, p. 69.

[10] Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia, n. 9.


[11] Benedetto XVI, Omelia, 15 agosto 2006; Regina Coeli, 19 aprile 2009.



BIBLIOGRAFIA DEGLI ALTRI TESTI CONSULTATI                                                                                                                                          
Prima del risposo notturno, Sito web del mensile Madre di Dio (ed. San Paolo).

Piccola storia delle preghiere, www.mariadinazareth.it

David J. Rothenberg, The flower of Paradise. Marian devotion and secular  song in Medieval and Reneissance music, Oxford University Press, 2011.


domenica 29 novembre 2015

Novena a Maria Immacolata, madre di misericordia /1


LA PIÙ ANTICA PREGHIERA MARIANA
Il Sub tuum praesidium 


Per riflettere sul mistero dell'Immacolata Concezione, possono essere d'ausilio alcune tra le preghiere più antiche della tradizione cristiana. Fra di esse, particolare rilievo ha il «Sub tuum praesidium", più nota come "Sotto la tua protezione», la più antica di tutte. Sintesi teologica, biblica e di fede, in essa si snoda un vero percorso verso la comprensione del mistero di Maria quale Madre di Dio e dei credenti e quale Madre di misericordia, proprio perché concepita senza peccato.





Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio,
Santa Madre di Dio:
non disprezzare le suppliche di noi 
che siamo nella prova,
e liberaci da ogni pericolo, 
o Vergine gloriosa e benedetta.
 
(Antica preghiera mariana)




UNA PREGHIERA ANTICA, MA ANCORA ATTUALE


La preghiera «Sub tuum praesiudum» (Sotto la tua protezione) è la più antica preghiera mariana. Con le parole in essa contenute, generazioni di fedeli si rivolgono, da due millenni, alla Vergine Maria, invocandone la protezione. Ancora oggi, questa orazione compare all'interno della Liturgia delle Ore (è una delle preghiere a scelta in chiusura di Compieta) e don Bosco la volle inserire nella benedizione di Maria Ausiliatrice. La scoperta di un papiro risalente, probabilmente, a non più tardi del III secolo d.C., ha permesso di effettuare un confronto tra le varie versioni di questa orazione (copta, bizantina, latina), fornendo dati importanti in materia linguistica, ma utilissimi per pregare Maria con maggiore consapevolezza di ciò che si chiede e di ciò che ella può offrire.

Sintesi biblica e teologica nella fede dell'orante

Sintesi biblica

La preghiera del «Sub tuum praesidium» appare come sintesi di bibbia, teologia e fede. 
Il rimando biblico è principalmente presente nell'espressione «sotto la tua protezione», che rinvia al porsi «all'ombra delle ali» di Dio, il Misericordioso, il Giusto, l'Onnipotente. Si tratta di un'immagine presente nel libro del profeta Isaia, ma, in modo particolare, nei Salmi. «È evidente che questa preghiera attribuisce alla Vergine benedetta una certa efficacia di protezione che naturalmente apparterebbe solo a Dio, una sorta di potere che Dio le concede perché è la Madre di Dio. Ed è questa protezione che la Chiesa ci raccomanda di chiedere ogni sera, quando recitiamo la ben conosciuta preghiera di Compieta» [1].
Inoltre, nella versione greca del testo, il termine tradotto in italiano con il vocabolo «protezione» («praesidium» in latino), è «euspagchia». «Questo è un termine che si volge al cuore materno della Vergine benedetta e alla sua grande e misericordiosa bontà e sollecitudine come Madre. In tal modo il testo originale greco può essere tradotto come: "Noi ci rifugiamo all'ombra della tua misericordia" o "al riparo del tuo cuore". Il suo cuore è grande e misericordioso perché è immacolato, come alla fine di questa preghiera, si afferma apertamente. Essa la chiama l'unica hagné, l'unica senza macchia o immacolata» [2].

Sintesi di teologia cristologica e mariana

Il «Sub tuum praesidium» appella Maria quale «Madre di Dio», espressione che compare per la prima volta nella storia del cristianesimo, proprio all'interno di questa orazione. Al momento della sua composizione si era ancora ben lontani dal Concilio di Efeso, che nel 431 avrebbe dogmaticamente affermato la divina maternità di Maria, confutando definitivamente le tesi eretiche di Nestorio, a parere del quale la Vergine di Nazaret era madre solo e semplicemente dell' "uomo" Gesù. 
«Il profondo convincimento che muove l'accorata preghiera è la maternità divina di Maria: rimandando al mistero di Cristo, tale straordinaria maternità non dice distanza-separazione da coloro che sono nella prova, bensì apertura certa del cuore verso di essi.
Generando il Dio-Uomo, Maria ha generato la salvezza dell'umanità bisognosa di essere soccorsa e liberata. Pensiamo alle celebri immagini che raffigurano santa Maria nell'atto di stendere il suo manto per accogliere e difendere, sotto di esso, quanti la cercano con amore» [3]. Si tratta di un'immagine spesso associata alla "Madonna della misericordia".



PROTETTRICE PERCHÉ MADRE "DELLA" E "DI" MISERICORDIA

Il contenuto biblico, teologico e di fede presente nella preghiera, consente una sua collocazione nella prospettiva di un unico tema, quello della misericordia. 
In primo luogo, papa Leone XIII, nella sua enciclica Magnae Dei Matris, afferma che «Maria, per il fatto stesso di essere stata eletta a Madre di Cristo, Signore e insieme fratello nostro, ebbe la peculiare prerogativa, tra tutte le madri, di soccorrerci manifestando la sua misericordia. Inoltre, se siamo debitori a Cristo di averci in certo modo comunicato il suo proprio diritto di chiamare e di avere Dio come padre, allo stesso modo gli siamo debitori di averci con grande benevolenza comunicato il privilegio di chiamare e di avere Maria come Madre».



Se il fedele può rivolgersi a Maria invocando questa protezione - che è normalmente prerogativa di Dio solo - è dunque perché Dio stesso ha coinvolto questa giovane ragazza nel suo mistero di misericordia, rendendola Madre della Misericordia Incarnata e, perciò, anche Madre "capace" di misericordia verso tutti i suoi figli, verso quel genere umano che le fu affidato sotto la Croce, da Gesù. Ma il mistero della misericordia divina nella vita di Maria passa, necessariamente, attraverso quello della sua immacolata concezione. «Con la chiara affermazione della maternità divina di Maria, il Sub tuum praesidium ha una manifesta allusione alla sua immacolata purezza, proclamando la Santa Vergine come la "Sola pura", la "sola casta" e "benedetta"» [4]. Maria è Immacolata, ossia preservata dal peccato, in funzione della maternità divina, per un'opera di misericordia di Dio che in lei non ha semplicemente cancellato, ma evitato in anticipo il peccato originale [5]. In più, ella custodisce nel suo grembo la Misericordia fatta carne e percorre un cammino di fede che sfocia in opere di misericordie. Opere che ancora oggi, in quanto Madre, ella continua a dispensare, soccorrendo i suoi figli. L'essere Immacolata Concezione diviene il punto di partenza e il collante tra la maternità di Maria e il suo atteggiamento misericordioso. Maria, donna senza peccato, è la creatura più sensibile sensibile «di fronte ai mali del mondo» [6].
È sintomatico che il «Sub tuum praesidium» venga inserita come una delle preghiere recitabili a fine Compieta, ossia quella parte della Liturgia delle Ore che si prega prima di andare a dormire. Il sonno, simbolicamente associato all'idea della morte, viene affidato a Dio attraverso la preghiera liturgica, ma in essa compare anche la presenza di Maria, madre di Gesù e madre dei cristiani. A lei il credente chiede di trovare rifugio, affinché rimanga "corpo e anima" legato a Dio, protetto da ogni pericolo, tanto fisico, quanto - e soprattutto - spirituale, su questa terra e nel momento della morte.



NOTE

[1] Tommaso Cuciniello, "Sub Tuum Praesidium" La più antica preghiera alla Vergine Maria. Estratto da un seminario di Mariologia. Napoli - Pntificia Facoltà Teologica sez. S. Luigi". Ottobre 1975, snt.
[2] Ibidem.
[3] http://www.monfortani.it/files/mesemaggio2010.pdf
[4] Tommaso Cuciniello, ult. cit.
[5] cfr. Giorgio Gozzelino, Ecco tua Madre! Breve saggio di mariologia sistematica, Elledici, 1998, pp. 44-46.
[6] Ibidem, p. 52

venerdì 27 novembre 2015

BEATA VERGINE DELLA MEDAGLIA MIRACOLOSA


La "Medaglia Miracolosa" e don Bosco

Spiritualità salesiana


Il nome di don Bosco è indissolubilmente legato a quello della Vergine Maria. Santo "mariano" per antonomasia, il padre dei giovani non fu - tuttavia - esclusivamente apostolo dell'Ausiliatrice. In don Bosco trovarono spazio tutte le varie sfaccettature della devozione alla Madonna, tra cui anche la narrazione - ai giovani dell'oratorio - delle più importanti apparizioni legate alla figura di Maria Immacolata. Non va infatti dimenticato che l'Ausiliatrice e l'Immacolata rappresentarono, per il sacerdote torinese, le due facce di una stessa medaglia. 
E proprio a una medaglia sono legate le apparizioni della Vergine a Rue de Bac (Francia), evento di cui la chiesa fa memoria ogni anno, il 27 novembre.



L'apparizione mariana a santa Caterina Labouré

Don Bosco «non solo dal pulpito, ma di Lei era solito parlare ogni giorno ed in qualunque ora del giorno; imperocché avendo il cuore ardentissimo di affetto per la Regina del cielo e della terra e la mente ripiena di inesauribili argomenti per esaltarne la potenza, la gloria e la bontà materna, giammai mancò alla risoluzione presa di raccontare ogni giorno un fatto, una grazia, un miracolo di questa potentissima Signora. Tanto più che i suoi portenti e le sue apparizioni molteplici nel secolo XIX di tratto in tratto rendevano sensibile il suo continuo patrocinio sulla chiesa cattolica e su tutti i fedeli. Gli uditori non difettavano mai, poichè o li incontrava, o li andava a cercare, secondo il proposito fatto. 
Innamorato della Immacolata Concezione, cui credeva fermamente, benché la Chiesa non l'avesse ancor dichiarato come dogma di fede, si procurava e distribuiva gran numero di quelle medaglie dette miracolose, perché i fedeli se le mettessero al collo. La medaglia da una parte ha l'effigie di Maria, che, ritta sul globo terracqueo, tiene sotto i suoi piedi un serpente, mentre dalle sue mani spante, aperte, abbassate partono fasci di raggi illuminanti la terra, simbolo di grazie e di benedizioni. Intorno si legge l'iscrizione: O Maria, concepita senza peccato, Pregate per noi, che ricorriamo voi. Nel rovescio vi è la lettera M avente sopra la croce e sotto due cuori; il cuore di Gesù circondato da una corona di spine, ed il cuore della Vergine trafitto da una spada; al tutto poi fan corona dodici stelle. Questa medaglia, simbolo di protezione divina, banditrice di un nuovo titolo della Madonna, era stato un dono del cielo. 
La sera del 18 luglio 1830, Catterina Labouré, figlia della Carità di S. Vincenzo de Paoli, dormiva in uno dei vasti cameroni della casa del noviziato a Parigi. 

L'orologio batteva le undici e mezzo, quando la novizia sentì chiamarsi per tre volte di seguito:  - Suor Labouré! 

Svegliatasi perfettamente, tirò alquanto la cortina del letto dalla parte donde aveva udita la voce, e con suo stupore vide un bambino dell'età dai quattro ai cinque anni. Era vestito di un lino candidissimo e dalla bionda sua testa, come da tutta la sua personcina, partivano vivissimi raggi che illuminavano tutto quanto eragli intorno, e con voce soave ed armoniosa le disse: - Vieni, vieni in cappella: la Santissima Vergine ti aspetta. 

La Suora come estatica, ma indecisa, pensava: Alzarmi? Uscire da questa sala? Sarò scoperta da qualcuna delle tante compagne!... E il leggiadro bambino rispondendo al pensiero della Labouré: - Non temere di nulla, soggiunse: sono le undici e mezzo, dormono tutti, ed io verrò in tua compagnia. 

A coteste parole Suor Catterina si veste in fretta e segue il fanciullo che le camminava sempre a sinistra, mandando raggi di luce, mentre le lampade dei corridoi accendevansi al suo passaggio. Crebbe lo stupore e la meraviglia della novizia, quando giunta alla porta della cappella, che sapeva essere saldamente chiusa, al solo tocco del dito della sua guida la vide spalancarsi e trovò la cappella tutta illuminata precisamente come alla Messa di mezzanotte del S. Natale. Giunta alla balaustrata, quivi la Labouré s'inginocchiò, e il fanciullo entrato nel presbiterio si fermò in piedi stando a sinistra. Lunghi parevano a Suor Catterina quei momenti di aspettazione.
Finalmente verso la mezzanotte la celeste guida avvisandola esclama: - Ecco la Santissima Vergine, eccola! - In quel mentre ella ode distintamente dalla parte destra della cappella un rumore leggiero, leggiero, simile al fruscìo di una vesta di seta. Ed ecco apparire una Signora d'incomparabile bellezza, coperta di veste bianca tendente al giallo, con velo azzurro, e viene a sedersi nel presbiterio dal lato sinistro dell'altare. Suor Labouré se ne stava come perplessa, lottando internamente col dubbio, ed immobile. Allora il fanciullo con voce forte e severa rimproverando la Suora, le domandò se la Regina del cielo non potesse assumere quel sembiante che più le piacesse per apparire ad una povera creatura! La Suora sentì in un istante svanire ogni suo dubbio, e seguendo l'impeto del suo cuore, andò a gettarsi ai piedi di Maria SS., posando famigliarmente le mani giunte sopra le di lei ginocchia, come avrebbe fatto colla sua mamma. 

Chi potrà descrivere tutti gli affetti provati in quell'istante dalla fortunata novizia. La Santa Vergine allora l'istruì sul modo di comportarsi nelle pene che l'affliggevano, e indicandole colla mano sinistra il piede dell'altare, le ingiunse di venire a gettarsi lì ad espandere il suo cuore, dove avrebbe ricevute tutte le consolazioni, di cui abbisognasse. Quindi afflittissima e colle lagrime agli occhi le predisse particolareggiata la nuova rivoluzione francese fino al 1871, le calamità di ogni fatta che avrebbero colpito il mondo, gli insulti coi quali sarà trattato N. S. Gesù Cristo, le grazie che saran concesse a tutte le persone che le chiederanno, grandi e piccoli: e assicurandola che chi avrà fede riconoscerà la sua visita e la protezione di Dio, annunziò alla novizia che le avrebbe dato una missione, cioè di far coniare una medaglia, secondo il disegno presentatole in una seconda visione, e di farla conoscere per mezzo dell'autorità ecclesiastica a tutto il mondo, promettendo grazie grandi a chi la portasse al collo. - La Vergine SS. dopo aver così conversato colla Labouré, sparve come ombra leggiera che si dilegua. Suor Caterina si alzò come fuori di sè per l'ineffabile violenza di tanti sublimi affetti. Quel celeste fanciullo disse: Ella è partita! - E ponendosi di bel nuovo alla sinistra della giovane novizia, accompagnolla al dormitorio, mandando lunghesso il cammino raggi di luce. Poi disparve. Suor Catterina era presso il suo letto e l'orologio batteva le due. Le profezie della Madonna che si andavano avverando, la rapida diffusione a centinaia di milioni della medaglia, i miracoli e le conversioni senza numero di peccatori ostinati, e la conferma della Sede Apostolica provarono la verità dell'apparizione di Maria, la quale fu una prima proclamazione della sua Concezione Immacolata.
Il rumore di tale avvenimento e dei fatti meravigliosi che ne seguivano riempiva allora tutto il mondo cristiano. Ma in questo anno 1842 una nuova luminosissima apparizione venne a confermare la prima. D. Bosco tosto la raccontava ai giovanetti del suo Oratorio per animarli alla divozione ed alla fiducia in Maria, e poi in questi termini la lasciava descritta nel suo primo Compendio di Storia Ecclesiastica: “Alfonso Ratisbona delle più doviziose famiglie israelitiche di Strasburgo, era tutto odio contro la religione cattolica, principalmente perché suo fratello Teodoro erasi reso cristiano e consacrato di poi al ministero sacerdotale. Per diporto venuto a Roma contrasse famigliarità col Barone di Bussieres, già protestante e ora convertito alla credenza cattolica, il quale insistendo inutilmente per fare al Ratisbona aprire gli occhi alla verità, pregollo di prendere almeno una medaglia di M. V. Immacolata. Per non mostrarsi scortese l'israelita, mattamente ridendo di tali divisamenti del Barone, lasciossela porre al collo. Il dì seguente usciti per Roma, entrano in una chiesa, e avendo il Bussieres alcun che da trattare nell'attiguo convento, prega l'ebreo di attenderlo quivi per poco tempo. 

Tornò il Barone; cerca qua e là il Ratisbona e lo vede ginocchioni immobile piangente dinanzi ad una cappella dell'Angelo Custode. Lo scuote dolcemente due o tre volte e infine Alfonso come scosso da profondo sonno, tutto molle di pianto, trae fuori la medaglia della Vergine, teneramente la bacia, la stringe al seno esclamando: - Io l'ho veduta, io l'ho veduta - 

Dimanda un sacerdote, sospira il battesimo e alla presenza di altre persone fra i più teneri movimenti del cuore prende a dire così: 

- Rimasto solo nella chiesa, ad un tratto mi sentii preso da un'agitazione inesprimibile. Levo gli occhi ed è scomparso tutto l'edifizio, ed una piena di luce si riversa per entro a questa cappella. Quivi di mezzo a quei raggianti splendori, ritta in sull'altare, piena di maestà e di dolcezza, ho veduto la Vergine Maria come è in questa medaglia. Avendomi colla mano fatto cenno che m'inginocchiassi, sentii da una forza irresistibile trarmi inverso di Lei e pareva mi dicesse: “Bene! bene!”. Non fece parola, ma io ho tutto inteso. Per un istante potei vedere l'immacolata bellezza del suo volto. Per ben tre volte ancora mi provai a rimirarla, ma non potei alzare gli occhi più  alti delle mani benedette, donde uscivano vivi raggi di grazie. E disparve. -
In quei brevi momenti gli venne infusa la cognizione delle verità cattoliche. Quattordici giorni dopo, il 31 gennaio 1842, Alfonso ricevette il santo Battesimo. Egli poscia abbracciò lo stato ecclesiastico, fondò la Congregazione religiosa delle Dame di Sion e visse e morì da santo. Il Sommo Pontefice ordinò che il fatto fosse sottoposto ad esame canonico e da questo risultò trattarsi di un vero ed insigne miracolo. Fu una conversione istantanea e perfetta, come quella di S. Paolo, portento più grande della vita ridonata ad un morto».

(Memorie Biografiche II, 112-117)

In "appendice" ecco il testo della supplica alla Vergine della Medaglia Miracolosa, preghiera da recitare alle ore 17:00 del 27 novembre (giorno della memoria liturgica), ma anche in ogni caso di necessità, per invocare l'aiuto di Maria Ss.:

1. O Vergine Immacolata, noi sappiamo che sempre e ovunque sei disposta ad esaudire le preghiere dei tuoi figli esuli in questa valle di lacrime, ma sappiamo pure che vi sono giorni in cui ti compiaci di spargere più abbondantemente i tesori delle tue grazie. 
Ebbene, o Madre, eccoci qui prostrati davanti a te, proprio in quello stesso giorno benedetto, da te prescelto per la manifestazione della tua Medaglia. Noi veniamo a te, ripieni di immensa gratitudine illimitata fiducia, in questo giorno a te così caro, per ringraziarti del gran dono che ci hai fatto dandoci la tua immagine, affinché fosse per noi attestato d'affetto e pegno di protezione. Noi ti promettiamo che: la santa Medaglia sarà il segno della tua presenza presso di noi, sarà il nostro libro su cui impareremo a conoscere, seguendo il tuo consiglio, quanto ci hai amato e ciò che noi dobbiamo fare, perché non siano inutili tanti sacrifici tuoi e del tuo divin Figlio. Sì, il tuo Cuore trafitto, rappresentato sulla Medaglia, poggerà sempre sul nostro cuore e lo farà palpitare all'unisono col tuo, lo accenderà d'amore per Gesù e lo fortificherà, per portar ogni giorno la nostra croce dietro di Lui.

Ave, Maria
O Maria concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a voi.

2. Questa è l'ora, o Maria, della tua bontà inesauribile, della tua misericordia trionfante, l'ora in cui facesti sgorgare per mezzo della tua Medaglia, quel torrente di grazie e di prodigi che inondò la terra. Fa, o Madre, che quest'ora, che ricorda la dolce commozione del tuo Cuore, la quale ti spinse a portarci il rimedio di tanti mali, sia anche l'ora nostra: l'ora della nostra sincera conversione, e l'ora del pieno esaudimento dei nostri voti. Tu, che hai promesso che grandi sarebbero state le grazie per chi le avesse domandate con fiducia, volgi benigno il tuo sguardo su di noi. Confessiamo di non meritare le tue grazie. 
Ma a chi ricorreremo, o Maria, se non a te, che sei la Madre nostra, nelle cui mani Dio ha posto tutte le sue grazie? Abbi, dunque, pietà di noi. Te lo domandiamo per la tua Immacolata Concezione e per l'amore che ti spinse a darci la tua preziosa Medaglia. 

Ave, Maria 
O Maria concepita ... 

3. O Consolatrice degli afflitti, che già ti inteneristi sulle nostre miserie, guarda ai mali da cui siamo oppressi. Fai che la tua Medaglia sparga su di noi e su tutti i nostri cari i suoi raggi benefici: guarisca i nostri ammalati, dia la pace alle nostre famiglie, ci scampi da ogni pericolo. Porti la tua Medaglia conforto a chi soffre, consolazione a chi piange, luce e forza a tutti. Ma specialmente permetti, o Maria, che, in quest'ora solenne, ti domandiamo la conversione dei peccatori, particolarmente di quelli che sono più bisognosi della tua misericordia. Ricordati che anch'essi sono tuoi figli, per i quali hai sofferto, pregato e pianto. Salva tutti i tuoi figli per poterti un giorno ringraziare e lodare eternamente in Cielo.
Amen. 


Salve, Regina 
O Maria concepita ...

lunedì 23 novembre 2015

LA BELLEZZA È CIÒ CHE MANGIAMO?

Cibo e spiritualità
Riflessioni sulla Parola

Il Libro del profeta Daniele presenta una pagina particolarmente interessante, in cui il giovane giudeo - assieme a tre suoi compagni, durante l'esilio babilonese - rifiuta di nutrirsi dei cibi prescritti dal re Nabucodonosor e, nonostante ciò, appare (dopo dieci giorni di dieta a base di verdure), più bello e sano degli altri giovani, ma, soprattutto, colmo di una sapienza che viene non dallo studio umano, ma direttamente dall'alto. 
Il tema che questo racconto biblico offre al lettore è di grande attualità: c'è connessione tra cibo e vita, tra cibo e bellezza, tra cibo e sapienza? 



Daniele rifiuta di cibarsi dei cibi ordinati dal re Nabucodonosor


«Il re ordinò ad Asfenàz, capo dei suoi funzionari di corte, di condurgli giovani israeliti di stirpe regale o di famiglia nobile, senza difetti, di bell'aspetto, dotati di ogni sapienza, istruiti, intelligenti e tali da poter stare nella reggia, e di insegnare loro la scrittura e la lingua dei Caldei. Il re assegnò loro una razione giornaliera delle sue vivande e del vino che egli beveva; dovevano essere educati per tre anni, al termine dei quali sarebbero entrati al servizio del re. Fra loro vi erano alcuni Giudei: Daniele, Anania, Misaele e Azaria; Ma Daniele decise in cuor suo di non contaminarsi con le vivande del re e con il vino dei suoi banchetti e chiese al capo dei funzionari di non obbligarlo a contaminarsi. Dio fece sì che Daniele incontrasse la benevolenza e la simpatia del capo dei funzionari. Però egli disse a Daniele: "Io temo che il re, mio signore, che ha stabilito quello che dovete mangiare e bere, trovi le vostre facce più magre di quelle degli altri giovani della vostra età e così mi rendereste responsabile davanti al re". Ma Daniele disse al custode, al quale il capo dei funzionari aveva affidato Daniele, Anania, Misaele e Azaria: "Mettici alla prova per dieci giorni, dandoci da mangiare verdure e da bere acqua, poi si confrontino, alla tua presenza, le nostre facce con quelle dei giovani che mangiano le vivande del re; quindi deciderai di fare con i tuoi servi come avrai constatato". 
Egli acconsentì e fece la prova per dieci giorni, al termine dei quali si vide che le loro facce erano più belle e più floride di quelle di tutti gli altri giovani che mangiavano le vivande del re. Da allora in poi il sovrintendente fece togliere l'assegnazione delle vivande e del vino che bevevano, e diede loro soltanto verdure. 
Dio concesse a questi quattro giovani di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza, e rese Daniele interprete di visioni e di sogni».
(Dn 1, 3- 17)



Premessa storica

«Nel 587 a. E. V., con la caduta di Gerusalemme, finiva anche il Regno di Giuda. Come gli ebrei del Regno di Israele, anche gli ebrei del Regno di Giuda dovevano ora prendere la via penosa e dura dell’esilio. I primi erano stati deportati in Assiria. I giudei furono deportati in Babilonia. Daniele era un giudeo di stirpe nobile deportato (Dn 1:3-6) e chiamato dal re babilonese Nabucodonosor a corte. Daniele e tre suoi compagni ebrei furono scelti per ricevere la speciale istruzione babilonese sulla scrittura e sulla lingua caldea: venivano preparati a svolgere incarichi governativi. Furono dati loro dei nomi babilonesi: Daniele divenne Baltassar (dal nome del dio di Nabucodonosor, Dn 1:7;4:8). La Legge di Dio aveva anche precise prescrizioni alimentari (Lv 11:4,13:17:12), per cui i quattro ebrei non vollero trasgredirla e rifiutarono i prelibati cibi babilonesi; preferirono così attenersi a una dieta vegetariana (Dn 1:8-16). Alla fine il re stesso notò che non c’era “nessuno che fosse pari a Daniele” e ai suoi tre compagni in fatto di sapienza, e pertanto “furono ammessi al servizio del re”. – Dn 1:19». [1]

CIBO E VITA 

L'atteggiamento del giovane Daniele e dei suoi compagni porta alla ribalta - in maniera piuttosto evidente - l'argomento "alimentare", tema evergreen e più che mai attuale nell'odierna società dei "consumi". Il problema del cibo è legato indissolubilmente all'essere umano fin dal suo concepimento. Non si può vivere senza nutrirsi. L'embrione si nutre attraverso l'utero materno, poi, il feto, attraverso il cordone ombelicale che lo lega alla propria madre. Ogni età umana richiede un'alimentazione adeguata, variabile in base al sesso, alle condizioni patologiche, alle situazioni climatiche.
Il cibo diventa "energia" per ogni attività umana, sia intellettuale che materiale. 
Senza cibo, il corpo umano sarebbe come una macchina senza benzina.
Ma è solo il cibo "materiale" che rende possibile la vita? È il cibo elaborato o costoso che rende l'uomo bello, sano... e santo?

Il cibo nella Scrittura

La stesso racconto biblico della creazione (Gn 1, 28-29) sottolinea il legame tra vita e cibo. Dopo aver creato l'uomo e la donna, il Creatore rivolge loro l'invito a essere fecondi, a soggiogare la terra e a dominare sui «sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra», aggiungendo: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo». 
Il cibo assume poi una valenza spirituale nel prosieguo della Scrittura: la manna dal cielo (prefigurazione dell'Eucaristia, vero cibo celeste) diventa nutrimento provvidenziale per gli ebrei usciti dall'Egitto; i sacrifici cultuali si compiono sugli animali; determinati cibi sono considerati immondi; nei libri profetici ricorrono spesso le immagini e la simbologia della vigna, dell'uva e del fico.
Nel Vangelo, in modo particolare, l'argomento viene sviluppato ulteriormente, fino a divenire oggetto di "scandalo" tra gli ascoltatori di Cristo. Gesù ricorre alla "pedagogia" del cibo per parlare delle realtà spirituali (come nella parabola del fico sterile, nel discorso sul pane vivo disceso dal cielo e in quello sulla vite e i tralci) e rimanda spesso all'idea del banchetto come raffigurazione "pratica" - e alla portata di tutti - del Regno dei cieli; al banchetto di nozze a Cana di Galilea compie il suo primo miracolo (Gv 2,1-11); Egli fa inoltre, della mensa, il luogo dell'evangelizzazione e il tempo propizio alla conversione, tanto da essere accusato di mangiare «assieme ai pubblicani e ai peccatori» (Mt 9,11) e da sentirsi chiedere: «perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?» (Mt 9,14). 
Il culmine di questa relazione cibo-spiritualità si realizza proprio in Cristo stesso, sacerdote, vittima e altare. Egli "sostituisce" i sacrifici imperfetti del Vecchio Testamento con il nuovo, perfetto e completo sacrificio che si compie nella sua stessa persona, offrendosi come cibo e bevanda di vita eterna, prima nell'Ultima Cena (anticipazione del sacrificio cruento della Croce), poi, proprio nella sua crocifissione. L'Eucaristia diviene il "Banchetto" per eccellenza, anticipazione escatologica di quello futuro, cioè della comunione piena e perfetta con Dio.

PANE E VINO, REALTÀ MATERIALI E SPIRITUALI

Cristo ha scelto di rimanere presente (e vivo) tra gli uomini, nelle specie del pane e del vino. Alimento basilare l'uno, bevanda della gioia, l'altro. Cibo necessario, il primo, bevanda accessoria, il secondo. Elementi però quasi senza tempo, nutrimento "da sempre" degli esseri umani; elementi complementari, l'uno e l'altro, perché la bevanda senza il cibo non sazia, e il cibo, senza la bevanda, rischia di soffocare.
Entrambi rappresentano la semplicità e la complessità della terra e del lavoro dell'uomo: la fragilità delle spighe di grano, la delicatezza della vite e dell'uva. La piccolezza del chicco di grano e dell'acino; l'attesa paziente e sapiente dei giusti tempi perché il pane lieviti e si cuocia a dovere e il vino raggiunga il giusto grado di fermentazione.
In questa semplicità l'uomo ritrova il contatto con l'essenziale: il cibo non è il fine, ma il mezzo. Nella società dei consumi - che ha fatto del cibo un argomento abusato, sprecato, sottovalutato nella sua reale portata, per farne oggetto di marketing, e, per contro, per lasciare intere fasce di popolazione immerse nella fame - l'essenzialità del pane e del vino ricordano all'uomo che ci si nutre per vivere, ma non si vive per nutrirsi. La semplicità del pane e del vino rammentano che ci si alimenta anche con cibi poco elaborati, poco costosi, senza stravolgere la natura, senza immettere sul mercato alimenti contraffatti e dannosi alla salute umana, in una sorta di "solidarietà" con il creato e con quanti combattono quotidianamente con la denutrizione o la malnutrizione.
In questo senso, pane e vino diventano il simbolo di un nutrimento completo, totale: essi oltrepassano la barriera materiale fino a diventare il "Totalmente Altro", pur rimanendo esternamente ciò che sono. Non cibo semplicemente per la vita, allora, ma cibo e bevanda per la vita eterna. Cibo che, nell'esistenza di alcuni santi e mistici, è divenuto quasi una "parabola nella parabola". La beata Alexandrina da Costa, san Nicola di Flue - e altri ancora - si nutrirono per anni di sola Eucaristia, simboleggiando che a rendere bella e piena di senso la vita, anzi, a rendere "possibile" la vita, nel senso più spirituale, profondo e reale del termine, non è ciò che si mangia, ma Colui di cui ci si nutre. Colui che si lascia assimilare, per assimilare l'uomo, per renderlo sempre più "simile" a Sè. «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (Gv 6, 35).

Il cibo vero

La scelta di Daniele di rifiutare i cibi prescritti dal re Nabucodonosor, per seguire invece la legge di Dio, è stato il trampolino di lancio per queste riflessioni sul rapporto tra cibo e vita. Il racconto estrapolato dal libro profetico si conclude con un'affermazione rilevante: nonostante l'alimentazione diversa (meno "ricca") da quella di tutti gli altri giovani, quel ragazzo giudeo e i suoi compagni verranno giudicati, dopo dieci giorni di prova, ben più belli e floridi di tutti gli altri. E non solo. Essi sono stati colmati di un sapere e di una sapienza che non sono frutto di studio o apprendimento umano, ma provengono direttamente dall'Alto, e determineranno la compiacenza dello stesso re.
Se, dunque, è un dato di fatto che la vita materiale vada alimentata attraverso il cibo, è altrettanto vero che la vita spirituale va, in parallelo, nutrita attraverso gli alimenti spirituali: l'Eucaristia, la preghiera, l'ascesi. La morigeratezza di Daniele e dei suoi compagni è il simbolo di un sano distacco dalle cose materiali e della capacità di porre la materia e lo spirito nel giusto ordine di priorità. Prima Dio e le sue leggi, poi le cose terrene. Prima il fine e poi i mezzi.
I santi hanno sempre insegnato (anche nei loro scritti spirituali e mistici) che l'uomo troppo goloso si lascia trascinare nel peccato. La gola diventa l'apripista di molti vizi, perché conduce l'uomo a "riempire" gli spazi da dedicare a un altro tipo di nutrimento, quello per la vita interiore, impedendo la conversione degli alimenti spirituali in energia spirituale. I santi hanno sempre dimostrato quanto la bellezza non venga da ciò che si mangia, ma da Colui di cui ci si nutrie. San Francesco di Paola e Padre Pio, due grandi santi del "digiuno" sono sempre stati descritti dai testimoni (e le foto del santo cappuccino lo testimoniano ancora oggi) come belli e floridi d'aspetto, per nulla macilenti. La loro bellezza era la bellezza di Cristo. Il loro nutrimento era Cristo Eucaristico. La loro energia era l'energia dello Spirito.
All'uomo di oggi, come a quello di ieri, si presenta dunque la necessità di una scelta: essere come il ricco epulone, che nella vita godette di ogni piacere della tavola (simbolo della chiusura nell'edonismo e nell'egoismo), lasciando nel bisogno il fratello fuori dalla propria porta, oppure come Gesù, che è venuto per lanciare a tutti l'invito al banchetto della vita eterna, anticipandolo fin d'ora, nella possibilità di nutrirsi di Lui, nell'Eucaristia, cibo della condivisione totale di tutto ciò che Dio è, era e sarà.


NOTE
[1] La storia di Israele - L'esilio babilonese dei giudei, Biblistica, uno studio accurato della Sacra Scrittura.

martedì 10 novembre 2015

SAN MARTINO. SE LA CASTAGNA INCONTRA IL BUON VINO...

"Cibo e Parola" 
(in collaborazione con Enza del blog Foodtales)


Prende avvio una collaborazione con una cara amica, Enza, talentuosa food artist, titolare del blog "Foodtales", nonché scrittrice di filastrocche.
La nostra amicizia ci ha spinte a unire le nostre diverse rispettive competenze e passioni, accomunate dall'unico denominatore massimo: la fede condivisa, oltre che vissuta personalmente. 
Nasce così "Cucina e Parola", una piccola rubrica in cui parlare di Vangelo attraverso il cibo e  gli spunti di riflessione che questi offre. D'altronde, Gesù non ha scelto la tavola imbandita come luogo attorno al quale conquistare molti peccatori? E non ha lasciato Se Stesso - all'uomo - sotto le Specie del pane e del vino, di cui ancora oggi ci si può nutrire, raccolti attorno alla Mensa Eucaristica?

Il primo frutto di questa collaborazione ha per tema San Martino, santo ricordato - a livello popolare - per la storia del mantello che condivise con un povero mendicante, ma anche per le castagne e per il vino che si è soliti consumare in occasione della sua festa, in molte località d'Italia. Una tradizione culinaria che ha dato origine a molti proverbi. E' possibile trarre un qualche spunto di riflessione spirituale, da tutti questi elementi? La castagna e il vino possono rimandarci - simbolicamente - ad altre realtà più profonde? Leggete... e lo scoprirete!



Soldato di Roma o soldato di Cristo?

Martino nasce in Ungheria, da genitori pagani. Il padre, per di più, sogna per lui una brillante carriera nell'esercito romano, essendo egli stesso tribuno, a capo di una guarnigione di soldati. Finanche il nome di Martino - "dedicato a Marte", dio romano della guerra -, assume un connotato preciso, all'interno di un simile contesto familiare.
Tuttavia, cresciuto a Pavia, dove il padre era stato trasferito per lavoro, Martino ha modo di conoscere la fede cristiana attraverso l'incontro con una famiglia credente. A dieci anni, e all'insaputa dei genitori, il piccolo rimane affascinato dallo "stile" di vita cristiano e, due anni più tardi, decide di diventare catecumeno (di compiere, cioè, un percorso di iniziazione cristiana in preparazione al Battesimo), scappando di casa. Rientrato in famiglia, grazie all'intervento dei suoi amici, il padre ne perdona il colpo di testa, ma lo mette anche dinanzi alle sue responsabilità di cittadino romano. Martino entra così nell'esercito, e viene inviato nella Gallia. Qui si dimostrerà soldato di Roma, ma anche soldato di Cristo.

Il mantello della carità 

Il ricordo popolare di san Martino viene spesso associato alla storia del suo mantello. L'episodio si colloca nell'inverno del 335, un inverno particolarmente rigido, che stava mietendo già molte vittime. Il santo ha poco meno di vent'anni. Durante una ronda notturna, incontra un mendicante seminudo, attanagliato dal freddo, che chiede l'elemosina. Martino non ha denaro o cibo da dargli. Non porta niente con sé, sotto la sua uniforme di soldato. Al contempo, non se la sente di proseguire, come altri avevano probabilmente già fatto. Mosso dalla carità, Martino sfodera la spada e divide in due il proprio mantello. Ne dà una metà al povero, tenendo l'altra per sé, attirando così la derisione di molti dei presenti.   

Il famoso affresco di Simone Martini, che illustra l'episodio (1317 ca.).
L'opera si trova nella cappella dedicata al santo
all'interno della Basilica di Asissi,

La leggenda vuole che la notte seguente, abbia luogo il sognò cambierà la vita di Martino: Gesù gli apparirà attorniato da angeli e ricoperto di quella parte del mantello che aveva donato al povero.  Poi si rivolgerà alle creature angeliche, dicendo loro: «Martino, il quale non è che un catecumeno, mi ha coperto con questa veste».

Simone Martini, Apparizione di Cristo e angeli in sogno a San Martino (1317 ca.)
Cappella di San Martino,
Basilica di San Francesco, Assisi

Al suo risveglio, Martino troverà integro l'indumento che il giorno prima era stato diviso in due. L'episodio lo toccherà nel profondo: già catecumeno, deciderà di farsi battezzare. Il mantello, considerato una reliquia, entrerà a far parte della collezione dei re merovingi di Francia. Martino diverrà poi discepolo di sant'Ilario di Poitiers, eremita e fondatore del primo monastero in occidente, da cui partirono molti monaci missionari. Nel 373 sarà vescovo di Tours. Verrà ricordato anche per l'erezione del monastero di Marmoutier, una sorta di seminario. Apostolo instancabile anche tra la gente più umile, fonderà varie parrocchie rurali. Sarà uno dei primi santi non martiri a essere ricordato nella Liturgia.

«A SAN MARTINO, CASTAGNE E VINO»

San Martino è associato anche a vari proverbi, in cui la saggezza popolare ha saputo evidenziare la sapienza contadina, quella di un mondo forse, per tanti versi, ormai poco comprensibile ai più giovani. Uno di questi proverbi recita: 
«A San Martino, castagne e vino».

Castagna e vino

La castagna era un frutto di grande importanza per le popolazioni contadine. Lo storico greco Senofonte lo definì «l'albero del pane», terminologia ripresa dal nostro poeta Giovanni Pascoli, che lo mutò ne «l'italico albero del pane». «La castagna, detta il pane di montagna, era alla base dell'alimentazione di gran parte della popolazione contadina del nostro paese. La castagna secca, un alimento nutriente quasi quanto il frumento, contiene il 59% di amido, il 4,7% di proteine , il 3% di grassi, vitamina PP ed elementi minerali tra cui calcio, ferro e potassio. In alcune regioni, come la Toscana, quest'albero e il suo frutto erano talmente importanti per la sopravvivenza della comunità che si parla di una vera e propria "civiltà del castagno". Intorno a esso sono nate tradizioni, leggende, tecniche colturali, abilità nella lavorazione artistica del legno» (Castagno, Enciclopedia Treccani on line). 
Ancora oggi è diffusa, specie in certe regioni (come la Calabria) la farina di castagna, che viene impiegata per la produzione di pane e dolci. È una farina che aggiunge morbidezza e gusto ai prodotti. Inoltre, nel periodo delle festività dei Santi e della memoria dei defunti, ci si raccoglie ancora attorno alla tavola per gustare castagne cotte o caldarroste. Un po' come avveniva ai nostri antenati, che proprio in occasione della festa di S. Martino - a partire dai luoghi in cui maggiormente se ne diffuse il culto, nel Nord Italia - consumavano castagne arrostite, accompagnandole con vino novello.


L'accompagnamento delle castagne al vino novello è tradizione antica. Il giornalista enograstonomico Claudio Gambarotto definisce questa usanza come espressiva della consumazione delle primizie della terra. L'abbinamento dei due prodotti tenderebbe inoltre a esaltarne i sapori, compensando la secchezza della castagna.

Cibo per l'anima. L'unione esalta i sapori!

Simbolicamente parlando, l'incontro tra la castagna e il vino rimanda all'idea della necessità di armonizzare due cose che, certamente possono essere buone anche da sole, ma insieme lo diventano ancora di più, assumendo più gusto e completandosi, esaltandosi a vicenda. La castagna è, in un certo senso, un po' come molti esseri umani: possiede tante qualità sotto la sua scorza dura. Le persone, a volte, vanno "sfogliate" delle loro apparenze più esterne, per arrivare alla loro ricchezza interiore. Non sempre è facile, proprio per via della durezza esterna. Tante volte poi, questi talenti sono ancora allo stato grezzo (il "secco", l'"asciutto" della castagna) e vanno dunque imbevuti di qualcosa che sia in grado di eliminare questo aspetto di durezza.
La metafora, per un cristiano, non può che far pensare a Cristo, "il vino nuovo" (da non confondersi con il novello, tuttavia) che non può essere versato in otri vecchi, ma necessariamente in otri nuovi (cfr. Mt. 9,17 ). Se l'essere umano vuole dare il meglio di se stesso, è chiamato a rinnovarsi, e a portare in questa novità di vita la novità del Vangelo. Il Vangelo che tocca l'interiorità della creatura non può farsi spazio in cuore duro, arido, sigillato. Deve lasciarsi trasformare, addolcire nelle proprie asprezze. L'incontro tra l'io e Dio esalta l'uomo, perché lo rende più uomo, lo fa emergere nella sua varietà di qualità e proprietà, capaci di dare "gusto" alla vita. L'incontro tra l'io e Dio esalta Dio, perché porta maggiormente la Sua presenza nel mondo, lo rende visibile agli altri, lo "magnifica", così come proclama Maria nel suo Cantico di lode (cfr. Lc 1, 46,55). L'incontro tra l'io e Dio rende possibile l'incontro tra l'io di molti fratelli, fire a realizzare un "noi" simbolo di fraternità e carità. Proprio come san Martino testimonia, con il suo gesto "impulsivo" e controcorrente dettato dall'amore, del "fare a metà" con il povero incontrato per caso. Nell'altro si rende presente l'immagine di Dio,  e dunque diventa possibile sfidare le convenzioni, le regole sociali, andare oltre l'apprezzamento medio della gente, per amore del fratello, per amore di quel Dio che "completa", che esalta, che non sottrae nulla. Questo vuole simboleggiare il gesto di Martino, nel suo incontro con il povero. Questo spiega la scelta di Gesù di apparire al giovane indossando proprio quella metà del mantello che il futuro santo aveva donato al mendicante.
La condivisione, l'unione inoltre, non è mai una perdita. Perde forse qualcosa, la castagna, dal suo incontro con il vino? No, al contrario. Guadagna in bontà.
Proprio come l'uomo non perde nulla nell'incontro con Dio e con gli altri, come simboleggiato dal fatto che l'indumento di Martino verrà ritrovato, dopo il sogno, integro. Perfettamente integro. E Martino sarà più ricco: animato dal desiderio di una conformità maggiore a Cristo, di una vicinanza più forte a Dio, diventando Suo figlio, nel Battesimo.


Cibo per il corpo: la ricetta di Enza, dal blog "Foodtales"




BIBLIOGRAFIA

P. Pasquale Magro, ofm, Assisi. Storia, Arte, Spiritualità, Edizione digitale 2014, in Google Books

Régine Pernoud, Martino di Tours, Jaca Book, 1998.

La tua volontà è per me un bene, Rivista di Maria Ausiliatrice,  2002,10, www.donbosco-torino.it

Daniele Roccato, Origine dei provebi. A San Martin castagne e vin, in www.academia.edu