lunedì 31 agosto 2015

I "POVERI" DI DIO

"‘anawìm" - "ptōchôis"- "πτωχός" 
Commento al Vangelo 


«Lo Spirito del Signore è sopra di me; 
per questo mi ha consacrato con l’unzione 
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, 
a proclamare ai prigionieri la liberazione 
e ai ciechi la vista; 
a rimettere in libertà gli oppressi 
e proclamare l’anno di grazia del Signore. 
 Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

(Lc 4, 18-19; 21)







Gesù parla quest'oggi della sua missione, rimandando al testo di Isaia che gli viene presentato durante un momento tipico della sua vita di ebreo osservante, quello dell'ascolto - commento della Scrittura e della preghiera al sabato, giorno dedicato al culto in onore di Jahvè.
Possiamo concentrarci su una delle parole pronunciate dal Maestro: "poveri".
Chi sono i poveri a cui fa riferimento Gesù e - prima ancora di Lui - Isaia?
E' ipotizzabile una ricapitolazione ideale in questo termine delle altre categorie espresse subito dopo (prigionieri, ciechi, oppressi)?
Possiamo identificarci con questi poveri, bisognosi della salvezza che viene dal Signore?


I "POVERI" NELLA BIBBIA: "‘anawìm" - "ptōchôis"- "πτωχός" 
Gesù legge un passo del capitolo 61 del profeta Isaia:
«Lo spirito del Signore Dio è su di me,
perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione;
mi ha mandato a portare
il lieto annuncio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri,
a promulgare l'anno di grazia del Signore,
il giorno di vendetta del nostro Dio,
per consolare tutti gli afflitti,
per dare agli afflitti di Sion
una corona invece della cenere,
olio di letizia invece dell'abito di lutto,
veste di lode invece di uno spirito mesto»
(Is 61, 1-3).
Il termine "poveri", nell'originale testo biblico in lingua ebraica, è "‘anawìm", termine che la versione greca dei Settanta traduce con il medesimo vocabolo che ritroviamo oggi nel Vangelo: "πτωχός" - "ptōchôis" [1].
Proviamo, allora, ad analizzare queste parole, interessanti sul piano semantico e, a partire da questo, su quello teologico e spirituale.

 "Anawìm": un termine che percorre tutta la Scrittura
Gli  anawìm sono per antonomasia i poveri della Bibbia, "i poveri di Dio".
Per comprendere meglio l'uso del termine all'interno del brano di Isaia letto da Gesù, è utile analizzare il rimando al profeta contenuto nel Salmo 149. Isaia parla infatti del «giorno di vendetta del nostro Dio», così come il Salmista prorompe in queste parole, che annunciano il giorno della «vendetta»: 
«Alleluia.
Cantate al Signore un canto nuovo;
la sua lode nell'assemblea dei fedeli.
Il Signore ama il suo popolo, 
incorona i poveri di vittoria.
Esultino i fedeli nella gloria,
facciano festa sui loro giacigli.
Le lodi di Dio sulla loro bocca
e la spada a due tagli nelle loro mani,
per compiere la vendetta fra le nazioni
e punire i popoli»
(Sal 149, 1; 4-7). 
Il Salmo 149 rientra nel gruppo dei Salmi post-esilio babilonese, cosa che fa ben comprendere l'atmosfera gioiosa, di lode e di canto, ma anche la rappresentazione del Signore nelle vesti di Colui che riscatta il suo popolo e «incorona i poveri di vittoria», così come sono comprensibili le espressioni che rimandano ad immagini di guerra. Interessante è l'"immagine" del «canto nuovo«, che verrà cantato dai fedeli (dunque anche dai "poveri"). E' questo un elemento che ci pone dinanzi all'«avvenire escatologico» preso in considerazione dal Salmo, come si legge nelle note alla Bibbia di Gerusalemme. Il «canto nuovo» è infatti citato in Ap 5,8-10, ed è il canto di lode all'Agnello che ha riscattato «uomini di ogni tribù, lingua e nazione» con il sacrificio della Croce. Questo «canto nuovo» ritorna anche in Ap 12,3, laddove si precisa che solo «i redenti della terra», «i vergini», potranno comprenderlo.
Il concetto di «vergini», precisa la nota di commento alla Bibbia di Gerusalemme, va inteso «in senso metaforico: la lussuria designa tradizionalmente l'idolatria, qui il culto della bestia. I centoquarantaquattromila sono riscattati, sono integri e fedeli; hanno respinto l'idolatria e possono essere fidanzati all'Agnello».
Questi continui rimandi tra Vecchio e Nuovo Testamento ci consentono di comprendere meglio chi siano gli "anawìm"; in che senso la Parola (anche la Parola Incarnata, ossia Gesù) li citi in rapporto al dies irae (il giorno dell'ira, della vendetta del Signore) e quale sarà la loro condizione futura, escatologica.
In prima battuta possiamo focalizzare la nostra attenzione sulla "categoria" socio-economica-culturale dei "poveri di Dio" nell'Antico Testamento:
«Gli ‘anawim del Vecchio Testamento erano i poveri di ogni tipo: i deboli, gli emarginati, gli oppressi sul piano socio-economico, le persone di basso ceto senza potere terreno. Infatti, costoro dipendevano totalmente da Dio per tutto ciò che possedevano. La parola ebrea anawim significa coloro che sono inchinati» [2].
Troviamo un interessante approfondimento in una catechesi di Giovanni Paolo II. E' un testo che ci consente di analizzare anche l'aspetto "spirituale" di questa povertà e il suo collegamento con il riscatto del popolo da parte di Dio:
«Gli ‘anawim, cioè “i poveri, gli umili”. Questa espressione è molto frequente nel Salterio e indica non solo gli oppressi, i miseri, i perseguitati per la giustizia, ma anche coloro che, essendo fedeli agli impegni morali dell’Alleanza con Dio, vengono emarginati da quanti scelgono la violenza, la ricchezza e la prepotenza. In questa luce si comprende che quella dei “poveri” non è soltanto una categoria sociale ma una scelta spirituale. Questo è il senso della celebre prima Beatitudine: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5,3). Già il profeta Sofonia si rivolgeva così agli ‘anawim: “Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini; cercate la giustizia, cercate l’umiltà, per trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore” (Sof 2,3).
Ebbene, il “giorno dell’ira del Signore” è proprio quello descritto nella seconda parte del Salmo quando i “poveri” si schierano dalla parte di Dio per lottare contro il male. Essi, da soli, non hanno la forza sufficiente, né i mezzi, né le strategie necessarie per opporsi all’irrompere del male. Eppure la frase del Salmista non ammette esitazioni: “Il Signore ama il suo popolo, incorona gli umili (‘anawim) di vittoria” (v.4). Si configura idealmente quanto l’apostolo Paolo dichiara ai Corinzi: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28).
Con questa fiducia “i figli di Sion” (v. 2), hasidim e ‘anawim, cioè i fedeli e i poveri, si avviano a vivere la loro testimonianza nel mondo e nella storia. Il canto di Maria nel Vangelo di Luca - il Magnificat - è l’eco dei migliori sentimenti dei “figli di Sion”: lode gioiosa a Dio Salvatore, azione di grazie per le grandi cose operate in lei dal Potente, lotta contro le forze malvagie, solidarietà con i poveri, fedeltà al Dio dell’Alleanza (cfr Lc 1,46-55)» [3].

"χόςπτω": colui che sa sopportare e pazientare
E' il vocabolo greco che compare nel Nuovo Testamento; è dunque quello che ritroviamo nel passo del Vangelo lucano proclamato quest'oggi.
La sua traslitterazione nei nostri caratteri alfabetici è "ptōchôis", la cui derivazione etimologica ci riporta a "ptōssō". Quest'ultimo verbo è molto interessante, perché designa la posizione un po' curva di chi mendica, piegandosi sulle propria ginocchia, ma anche di chi si copre per "paura", di chi "trema". Su un piano concreto, il termine esprime dunque l'idea dell'indigenza che "mette in ginocchio" la persona, e la colloca in una posizione di "paura"  e di invisibilità rispetto ai potenti del mondo. Ma sul piano spirituale e metaforico, il "povero" biblico è colui che sa sopportare il peso gravoso della vita che vorrebbe schiacciarlo, le umiliazioni, le fatiche, ogni tipo di povertà (economica, psicologica, fisica), e che nonostante tutto rimane "fedele" al Signore, fiducioso nella Sua promessa, mosso dal santo timore di Dio (non da una vile paura). Il "povero" si riveste di umiltà nei confronti dell'unico potere che egli riconosca: quello divino. Ecco che, allora, il gesto del "sopportare" (l'atto di rimanere piegato sulle ginocchia, come spinti verso il basso da un peso, ma non "stesi al tappeto") si unisce al gesto del "mendicare". Il vero "povero di Dio" rimane sereno e orante nella prova, e attende di ricevere la salvezza che viene dal Signore. Chi mendica resta con la mano tesa, aperta, pronta a ricevere quanto verrà donato. Chiedere a Dio la Sua "carità" è un gesto di fiducia, di amore, di fedeltà.
I veri "anawìm"  ( o "ptōchôis"- "πτωχός" che dir si voglia) sono «quei fedeli che si riconoscevano "poveri" non solo nel distacco da ogni idolatria della ricchezza e del potere, ma anche nell'umiltà profonda del cuore, spoglio dalla tentazione dell'orgoglio, aperto all'irruzione della grazia divina salvatrice» [4]. 
Fede e speranza nella salvezza che viene dal Signore sono, quindi, le virtù che animano la vita del "povero". San Paolo, nella Prima Lettura di oggi ci esorta infatti proprio alla speranza: «Se Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con Lui coloro che sono morti» (1Ts 4,14).
Se il povero possiede questo grande tesoro, come potrà mantenersi "umile"? E' ancora una volta San Paolo a fornire una risposta, attraverso un'altra sua epistola:
«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. in noi agisce la morte, in voi la vita.
Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l'inno di ringraziamento, per la gloria di Dio» (2 Cor 4, 7-15).

POVERI: PRIGIONIERI, CIECHI, OPPRESSI
Dopo l'analisi dei termini utilizzati in ebraico e in greco per indicare la categoria del "povero biblico", è possibile rispondere ad un altro degli interrogativi iniziali.
Il concetto di "poveri" cui fa riferimento Gesù, comprende tutti quelli che vengono in seguito elencati dal testo di Isaia, proclamato da Cristo nella Sinagoga. I poveri non sono distinti dai prigionieri, dai ciechi, dagli oppressi. I poveri "comprendono" tutte e tre le categorie. I poveri sono prigionieri, perché fintanto che la povertà li costringe a rimanere in ginocchio, manca loro la libertà di movimento; sono ciechi, perché l'atteggiamento tipico del povero è di mendicare a testa china, con lo sguardo fisso in un punto unico, "basso", senza prospettive "alternative"; sono oppressi, perché la pesantezza del fardello caricato sulle loro spalle fa sentire loro tutta la difficoltà della vita.
Vi è tuttavia anche una lettura metaforica della "povertà", che ci fa guardare alla condizione di chi attende di essere salvato dalla misericordia di Dio. Sono "gli uomini di buona volontà", quegli uomini di cui parla l'Apocalisse. «Uomini di ogni tribù, lingua e nazione» che sanno, come i mendicanti, accogliere l'offerta della Salvezza a piene mani, per essere risollevati da Colui che «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà
» (2 Cor 8,9).

GESU', COLUI CHE SI E' FATTO POVERO PER SALVARE I POVERI
«Nella sua epistola ai Filippesi, San Paolo ci dice che Gesù svuotò sé stesso, assumendo una forma di servo, diventando simile agli uomini. La frase "svuotò sé stesso", si riferisce in primo luogo all'Incarnazione. La Kenosi [5] di Gesù significa che colui che ha svuotato sé stesso liberamente, ha scelto di privarsi di qualcosa che già possedeva. Una persona che si svuota dà via la sua ricchezza e diventa povera. San Francesco d'Assisi ne è un esempio famoso. Gesù ha fatto questo affinché attraverso la sua povertà (noi) "potessimo diventare ricchi". E' entrato nella condizione degli aniwim privi di potere, ma non ha dis-divinizzato sé stesso della sua Divinità. Si è fatto una cosa sola con i poveri, diventando  assolutamente povero. Gesù ha svuotato sé stesso in quanto amore (agape) per redimere l'umanità attraverso la kenosi. L'amore porta alla kenosi, e la kenosi alla gloria. L'amore era l'unica ragione per la sua incarnazione, la sua passione, morte e risurrezione» [6].
E' Gesù la ricchezza del povero; la Sua Umanità "condivisa", rende possibile a noi, uomini poveri, una cosa umanamente impossibile: entrare in "comunione" con la Sua Divinità, che è la vera e sola ricchezza, il riscatto da ogni miseria, la liberazione da oni tenebra di peccato e di dolore, di malattia e di morte, di indigenza e di indifferenza altrui, la fine di ogni oppressione, la libertà dopo ogni prigionia.
«Dio si è fatto uomo perché l'uomo si facesse Dio. Perché il servo si cambiasse in padrone Dio prese la condizione di servo. Abitò sulla terra l'abitatore dei cieli perché l'uomo abitatore della terra potesse trovar dimora nei cieli» [7]. Così ci assicura - e rassicura  -sant'Agostino. Dio ha voluto condividere con noi la "povertà" per renderci degni di accedere alla contemplazione eterna della Sua gloria, in quel Regno dove «molti dei primi saranno ultimi» mentre «gli ultimi saranno primi» (Mc 10,31), chiamati a godere per sempre del «tesoro di gloria» che racchiude l'eredità di Gesù fra i santi (cfr. Ef 1,18). 


[1] Per i significati del vocabolo greco si può consultare il sito biblehub.com
[2] Sr. Joan L. Roccasalvo, C.S.J., The anawim: who are they?, 
in www.catholicnewsagency.com (i passi riportati sono stati tradotti dall'originale inglese).
[3] Giovanni Paolo II, Udienza generale, 23 maggio 2001.
[4] Benedetto XVI, Udienza generale, 15 febbraio 2006.
[5] Il termine greco "Kenosi" significa "svuotamento, annientamento".
[6] Sr. Joan L. Roccasalvo, in ult. cit.
[7] Sant'Agostino, Discorso 371, 1 (in versione informatica è disponibile in www.augustinus.it

domenica 30 agosto 2015

IL CUORE, SORGENTE DELL'AMORE


Commento al Vangelo 


  «Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: 
"Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. 
Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro". 
E diceva [ai suoi discepoli]: 
"Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. 
Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno
 e rendono impuro l’uomo"».

(Mc 7, 14-16)





Gesù, attraverso le sue parole, ci lancia un avvertimento: attenzione a cosa "coltiviamo" nel nostro cuore! La pagina evangelica di oggi, XXII Domenica del Tempo Ordinario si focalizza, in sostanza, sul tema del cuore, bene evidenziato dai versetti 14-16 del capitolo 7 di Marco.


IL CUORE COME SIMBOLO
Il cuore, biblicamente parlando, identifica il centro della persona e, perciò, ne diviene l'elemento "rappresentativo". Lo esprime bene una devozione molto popolare, quella al Sacro Cuore di Gesù.
A tal proposito, così si pronunciò papa Pio XII, nell'Enciclica Haurietis Aquas:
«Il Cuore del Verbo Incarnato è considerato come il principale simbolo di quel triplice amore, col quale il Divino Redentore ha amato e continuamente ama l’Eterno Padre e l’umanità. 
Esso, cioè, è anzitutto il simbolo dell’amore, che Egli ha comune col Padre e con lo Spirito Santo, ma che soltanto in Lui, perché Verbo fatto carne, si manifesta attraverso il fragile e caduco velo del corpo umano, "poiché in Esso abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità" . 
Inoltre, il Cuore di Cristo è il simbolo di quell’ardentissima carità, che, infusa nella sua anima, costituisce la preziosa dote della sua volontà umana e i cui atti sono illuminati e diretti da una duplice perfettissima scienza, la beata cioè e l’infusa. 
Finalmente — e ciò in modo ancor più naturale e diretto — il Cuore di Gesù è il simbolo del suo amore sensibile, giacché il corpo del Salvatore divino, plasmato nel seno castissimo della Vergine Maria per influsso prodigioso dello Spirito Santo, supera in perfezione e quindi in capacità percettiva ogni altro organismo umano».
Il cuore è chiamato a diventare anche il "principale" simbolo di chi vuole seguire Cristo. Si interpongono qui delle domande di fondamentale importanza: quale amore esprime il nostro cuore?
Come lo custodiamo? Come viviamo il rapporto tra cuore e pensiero, tra cuore e ragione, tra cuore e istinto? Cosa "coltiviamo" nel nostro "centro"?

Il cuore come "ricevente"
L'idea del cuore come "centro" dell'essere umano fa pensare ad una serie di forze che convergono in esso: è qui che sembrano ricapitolarsi tutte le energie interiori dell'uomo. In sostanza, è nel cuore che affluisce - emotivamente e sensibilmente - tutto ciò che rappresenta "i nostri fiumi". I ragionamenti e i pensieri, le immagini catturate dai nostri occhi, i suoni percepiti dalle nostre orecchie... che vengono trasformati in "emozioni", in "sentimenti".

Cosa sentiamo?
Se il cuore è come un catalizzatore emotivo, occorre fare attenzione a cosa "bruciamo" in esso. C'è il rischio che ci lasciamo trasportare dai ragionamenti troppo umani, dalla prima impressione derivata solo da ciò che abbiamo visto/sentito e che convertiamo questi "affluenti" in propositi di vendetta, invidia, rancore, gelosie inutili, e in quanto altro ancora (di ben più grave) Gesù enumera.

Sentire non è acconsentire
Non fermiamoci ad una lettura superficiale del Vangelo. 
L'uomo fa spesso l'esperienza del "sentire" invidie, rancori, gelosie. Non di rado il cuore viene toccato da desideri cattivi. Il male tenta di assalire il cuore dal di fuori e dal di dentro. I santi hanno lottato con tentazioni di ogni genere. Gesù stesso ne ha vissuto l'esperienza, durante i quaranta giorni trascorsi nel deserto (cfr. Mt 4,1-11). Il punto cruciale sta nel "vincere" su quanto di male "vorrebbe" proliferare nel nostro cuore, frutto della concupiscenza, della debolezza umana e della tentazione.
Gesù sembra fare questa sottigliezza, nel dire che dobbiamo stare attenti a ciò che facciamo uscire dal nostro cuore, non solo e non tanto a ciò che vi entra.

Il cuore come "sorgente"
Il cuore, allora, non solo è un fiume ricevente, cui affluiscono numerose altre fonti, ma è anche una vera e propria sorgente. Le sue acque vanno, simbolicamente, bonificate da quanto potrebbe inquinarle. Come?


IN ASCOLTO E IN OSSERVANZA DELLA PAROLA
Troviamo la risposta nelle Letture di oggi, centrate sulla necessità di ascoltare la Parola e di metterla in pratica, come Parola che viene non dagli uomini, ma da Dio (ce lo ribadiscono tanto il Deuteronomio, quanto Giacomo),da un Dio che è legislatore giusto, vicino al suo popolo.
E' interessante analizzare il Salmo 15:
«Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore, 
non sparge calunnie con la sua lingua.
Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore».
Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre».

La Verità alberga nel cuore
Se il cuore è il centro della persona, allora, in questo centro penetra anche la voce della coscienza, e così pure affluisce la voce di quel Dio che ci tiene in vita (e che ci ha creati dal suo soffio vitale - cfr. Gn 2,7) e che in Cristo è divenuto il Verbo Incarnato. Un Verbo con un Cuore di carne.
«Cor ad cor loquitor», «Il cuore parla al cuore», come scrisse in una lettera san Francesco di Sales, usando un'espressione che divenne poi il motto cardinalizio del beato Newman. 
Se vogliamo rendere puro tutto il nostro essere dobbiamo allora imparare a custodire e meditare la Parola nel nostro cuore, sull'esempio di Maria di Nazareth (cfr. Lc 2,19). Così facendo, da esso, come da una sorgente, usciranno opere di giustizia e di carità, secondo la descrizione che ci fornisce il Salmo; proromperà anche una preghiera sincera, capace di onorare Dio non solo a parole (con le labbra), ma con il cuore, cioè con tutta la nostra persona.

La preghiera fatta col cuore
Gesù - venuto a portare a compimento la Legge e i Profeti (cfr. Mt 5,17) -  nel chiedere una preghiera fatta "con il cuore" non fa altro che riformulare concetti dell'Antico Testamento. Ritroviamo infatti un rimando a Is 29,13:
«Questo popolo
 si avvicina a me solo
con la sua bocca
e mi onora con le sue labbra,
mentre il suo cuore è lontano da me»
e al Deuteronomio, in cui è contenuto lo "Shemà Israel":
«Questi sono i comandi, le leggi e le norme che il Signore, vostro Dio, ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica, perché tu tema il Signore, tuo Dio; osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti dò e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6, 1-5).

IL CUORE UMANO SIMBOLO TEOFANICO DELL'AMORE
Il passo sopracitato del Deuteronomio si conclude così:
«Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6, 6-9).
La Parola deve inabitare il nostro cuore. Solo così esso diventerà il simbolo più eloquente della possibilità concreta, per l'uomo, di amare Dio al di sopra di ogni cosa, ma anche sé stessi e il prossimo come sé stessi (cfr. Mt 22, 37-39).
Solo così il cuore sarà - simbolicamente - quella sorgente da cui sgorgherà la Parola - assimilata, meditata, custodita - che fa luce sui nostri passi (cfr. Sal 119,105), così come dal Cuore di Cristo sono sgorgati, sul Golgota, i fiumi di acqua viva che ancora oggi ci dissetano nelle fatiche del cammino (cfr. Gv 7,38). 
II nostro cuore - la nostra stessa persona - è chiamato ad essere "teofania" dell'amore divino, così come il Cuore di Cristo - Cristo stesso - è la Teofania per antonomasia di quel Dio Uno e Trino, sorgente di ogni vita, di ogni bellezza, di ogni bontà. Sorgente di tutto ciò che può saziare la fame d'amore di ogni cuore umano.

sabato 22 agosto 2015

REGINA PERCHE' OBBEDIENTE

Riflessioni sulla memoria liturgica di Maria Regina

 



«Scrive Giustino: “Il Figlio di Dio si è fatto uomo per mezzo della Vergine, affinché la disobbedienza provocata dal serpente fosse annullata attraverso la stessa vita per la quale prese inizio. Come infatti Eva, che era vergine e incorrotta, dopo aver accolto la parola del serpente, partorì disobbedienza e morte, allo stesso modo Maria, la Vergine, avendo ricevuto dall’Angelo Gabriele il buon annuncio che lo Spirito Santo sarebbe disceso su di lei e che la potenza dell’Altissimo l’avrebbe adombrata, concepì fede e gioia, per cui il nato da lei sarebbe stato il Figlio di Dio”.

 Sono solo poche righe eppure la loro importanza, nella storia della teologia mariana, è notevolissima. Giustino contrappone due scene: il peccato di origine e l’Annunciazione, Eva e Maria. Questa contrapposizione serve a far risaltare il contributo di Maria all’opera redentrice di suo Figlio. Tale contributo è consistito soprattutto in un atteggiamento spirituale, la sua obbedienza alla Parola di Dio. Questa obbedienza, impreziosita dal fatto che nasceva da un cuore verginale, ha reso possibile l’Incarnazione per opera dello Spirito Santo. Giustino lascia intendere che il “sì” di Maria all’annuncio dell’Angelo ha veramente cambiato la direzione della storia: non più morte per l’anima e per il corpo, la triste sorte degli uomini senza l’Incarnazione, ma vita, fede e gioia! Con questo raffronto tra Eva e Maria, Giustino fa capire che nella storia della salvezza, raccontata nella Bibbia, esiste una legge. Questa legge è l’analogia. Che cosa significa? Significa che i vari eventi con cui Dio chiama l’uomo alla salvezza si richiamano e si integrano a vicenda. Tutti però convergono verso Cristo, il centro e il perfetto compimento della salvezza. In questo intreccio di eventi e parole, la Madonna è presente con un suo ruolo insostituibile e indispensabile. La Tradizione cristiana, a partire da Giustino, ha incessantemente scrutato le Scritture per trovare adombrata la figura della Madonna in tanti episodi della Bibbia, proprio come l’autore del Dialogo a Trifone era riuscito a scoprire nel parallelismo tra Eva e Maria. Il contributo di Ireneo Questo paragone piacque tanto ai successivi Padri della Chiesa che uno di loro, Ireneo di Lione, non molti anni dopo Giustino, lo riprese e lo approfondì. Ireneo scrisse un’opera voluminosa in cinque libri, intitolata “Contro le eresie”. Negli anni in cui egli visse, nella seconda parte del secondo secolo, gli gnostici stavano confondendo le menti di molti cristiani, facendo una specie di “minestrone religioso”. Essi, infatti, mescolavano elementi della Rivelazione cristiana con i miti pagani e con dottrine della filosofia greca. Una delle conseguenze del loro insegnamento era questo: per ottenere la salvezza, Cristo non era necessario, si poteva comprendere Dio e le sue molteplici manifestazioni e salvarsi facendo ricorso alle proprie forze, in particolar modo alla propria capacità di “conoscere”. Lo gnosticismo era una specie di new age ante litteram. Pericoloso quello, pericoloso questo. Ireneo, che era dotato di una grande capacità di contraddire i suoi avversari, riesce a mostrare come tutta la storia dell’umanità si ricapitola, si riassume in Cristo e nella sua opera di redenzione. Ed ecco che, a questo punto, anche Ireneo paragona Maria ad Eva e, a differenza di Giustino, aggiunge anche un secondo parallelismo che spiega meglio il primo, Cristo ed Adamo. 
 “Era conveniente e giusto che Adamo fosse ricapitolato in Cristo, affinché la morte fosse assorbita nell’immortalità e che Eva fosse ricapitolata in Maria, affinché la Vergine, divenuta avvocata di un’altra vergine, potesse annullare e distruggere, con la sua verginale obbedienza, 
la disobbedienza verginale”. 

Questo passo di Ireneo, ed altri ancora simili a questo, illustrano un principio basilare della fede: Cristo ci ha procurato la salvezza e, per disegno del Padre, ha voluto la Madonna accanto a sé, come sua cooperatrice. Nei secoli successivi, la teologia cattolica ha adoperato un’espressione molto forte per spiegare questa cooperazione di Maria: corredenzione. Per i Padri della Chiesa, questo contributo della Vergine Maria all’opera del Nuovo Adamo, cioè suo Figlio il Cristo, “appariva giusto e conveniente”, come si esprime Ireneo nel passo che abbiamo citato. Non ci sfugga che in questo brano sant’Ireneo attribuisce alla Madonna un titolo che sarebbe poi diventato molto comune tra i cristiani. Chiama la Madonna “avvocata”. 
Non ci spiega ancora in che cosa consista questa sua prerogativa. È un compito che sarà illustrato successivamente: la Madonna intercede per i peccatori, che come Eva non obbediscono alla Parola di Dio. Uno studioso contemporaneo, commentando l’insegnamento di Ireneo sulla Madonna, osserva:
 “La dottrina attuale circa la collaborazione di Maria alla redenzione degli uomini e alla mediazione della grazia divina ha le sue lontane ma visibili radici nell’insegnamento del grande vescovo di Lione”. 
E a questo giudizio volentieri ci associamo: una meravigliosa sinfonia canta le lodi di Maria, essa è iniziata nei primi anni della storia della Chiesa con i Padri della Chiesa, e viene, lungo i secoli e senza sosta, proseguita da tutti i grandi devoti della Madonna».

don Roberto Spataro, sdb 



La memoria liturgica di oggi sospinge la nostra attenzione sul ruolo che Maria, una volta assunta in Cielo, ha definitivamente ricevuto: essere Regina della realtà celeste, ma anche e ancora di quella terrena.
La regalità non sottrae Maria alla sua "missione" di servizio: il suo regnare è un continuo intercedere per l'umanità sofferente, a volte lontana dall'eseguire il volere divino; ad ogni modo ed in ogni caso, la sua regalità è quella di colei che esercita il suo potere in favore dei propri sudditi, per contribuire al raggiungimento del loro vero bene.
Nella regalità di Maria, che anche il magistero definisce "primizia" della Chiesa, il credente intravede qualcosa di quell'aspetto del proprio triplice stato di battezzato: sacerdote, re e profeta.
Ma regnare, lo sappiamo bene, è "servire". Maria stessa, nel Vangelo di Luca, all'annunciazione risponde con quell' "ecco, sono la serva del Signore", che altro non è che un'accettazione del ruolo per lei predestinato da Dio: essere regina nel servizio.
L'obbedienza di Maria è la chiave della sua "incoronazione". Se la Vergine non avesse pronunciato i suoi tanti, innumerevoli "sì" al Signore, non avremmo una Regina come lei.
Se Maria "comanda" in Cielo e "serve" in terra, è perché ha saputo lasciarsi guidare da Dio, passo passo, per percorrere il cammino tracciato per lei.

Mi sento spesso chiedere come abbia potuto, la Madonna, essere una creatura "libera" nella sua risposta al Signore. Non era "la piena di grazia", la "concepita senza peccato originale"?
Certamente, lo era. Lo è. Lo sarà. Questo la rendeva, in un certo senso, "incapace di peccare".

Molti teologi parlano di una sua "impeccabilità estrinseca e morale, vale a dire: le fu dato un grado così alto di santità che sarebbe stato sorprendente vedere Maria commettere un peccato, dal momento che tutta la sua attrazione era verso Dio. Tale impeccabilità non si oppone alla libertà. Conservando la libertà, ha conservato anche il merito" (cf. www.amicidomenicani.it)  

Ma non dimentichiamo che in quel parallelo che i Padri della Chiesa hanno tracciato tra l'Antico e il Nuovo Testamento, definendo Maria quale "nuova Eva", possiamo trovare anche noi una risposta all' "annoso" quesito, in termini quasi, oserei dire, pratici.
Eva era stata creata senza peccato, pura, libera di scegliere. La sua libertà è stata l'arma a doppio taglio che l'ha condotta alla caduta originale.
Maria è stata creata senza peccato, in virtù dei meriti di Cristo a lei anticipatamente applicati.
Quale "nuova Eva", anche a lei è stata concessa libertà: la libertà di scegliere Dio.
E Maria ha qui segnato un percorso diverso rispetto a quello di Eva. Ha scelto Dio.
La vita di Maria è una vita di "regina" che serve nel suo continuo "sì" al Signore.
Perché se per gli angeli e per i progenitori la scelta si è compiuta in un lasso di tempo "relativamente" breve, per Maria la scelta è durata tutta la vita.
Maria ha scelto "il Re" attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Maria ha rinnovato il suo "eccomi" ad ogni sofferenza, ad ogni gioia, ad ogni umiliazione, ad ogni difficoltà.
La libertà di Maria è stata liberamente orientata al Signore: possiamo immaginare con un certo realismo che, proprio perché altamente "santa", più forti saranno state nei suoi confronti le tentazioni del demonio.
In questo Maria ci precede nel cammino del nostro regnare, perché ha attraversato la vita come noi; è stata chiamata - come noi - a rinnovare di volta in volta la scelta del Bene, a rigettare di momento in momento la seduzione del tentatore.
Maria è stata regina non su un trono di gloria, ma di fede e di carità, di obbedienza e di virtù, di libertà orientata al bello, al buono, al santo, al giusto.
Se oggi ricordiamo, dunque, la sua incoronazione quale Regina assunta in Cielo, non dimentichiamo che questa sua corona regale ha già attraversato la terra, durante la sua vita materiale, e ci rammenta che tutti, nelle fatiche di ogni giorno, siamo chiamati a regnare con il Signore, se sapremo servirlo in Sé stesso e nei fratelli che incontriamo, se sapremo obbedire alla Sua voce, rispondendo un "Eccomi" che duri per tutta la vita, per essere poi un "regnare insieme" nell'eternità.


venerdì 14 agosto 2015

ASSUNTA PERCHE' IMMACOLATA

Il mistero di Maria Assunta in Cielo
Commento alla Parola 




"Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. 
Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto".
(Ap 12, 1-2)



Il mistero dell'assunzione di Maria al Cielo, in Corpo e Anima, ci rimanda ad un altro mistero della "vita" della Vergine: quello della sua Immacolata Concezione.

ASSUNTA PERCHE' IMMACOLATA
L'idea del binomio non è casuale, ma prende spunto dalla coincidenza veramente "fortunata" che la Chiesa stessa ci offre: festeggiare, alla vigilia dell'Assunta, un santo mariano, san Massiliano Maria Kolbe, il "folle" dell'Immacolata.
Questo susseguirsi di ricorrenze liturgiche ci porta a riflettere sul legame tra l'immacolatezza di Maria e la sua assunzione al Cielo.
Allo stesso modo, il brano dell'Apocalisse, altro non fa che descriverci Maria attraverso i riferimenti che poi diverranno tipici dell'iconografia dell'Immacolata: la luna, le dodici stelle...
La tradizione pittorica ha fatto il resto, e così, nel raffigurare il mistero dell'assunzione, aggiunge anche il serpente sotto i piedi della Vergine, rimando chiaramente allusivo all'idea di Maria Immacolata quale "nuova Eva", che sconfigge il peccato raffigurato dall'animale strisciante, simbolo del demonio tentatore della Genesi.
Maria, dunque, nasce e vive sulla terra quale creatura senza macchia e come tale viene assunta nella gloria di Dio. Anzi, proprio perché immacolata, Ella può presentarsi al cospetto di Dio nella sua interezza di persona umana e spirituale, senza il passaggio cruento della morte (bellissima è l'immagine della "dormizione" della Vergine), e senza la necessità di purificazioni in Purgatorio; ma, soprattutto, godendo del privilegio "immediato" di comparire nella sua umanità glorificata dinanzi a Dio, senza attendere il momento della risurrezione finale a seguito del Giudizio Universale.

SANTI E IMMACOLATI NELLA CARITA' (Ef 1,4)
Maria porta a compimento pieno la prerogativa della sua stessa venuta al mondo: essere Immacolata. La sua vita rispecchia la parola di san Paolo: l'uomo è chiamato, (addirittura - ci dice l'apostolo - scelti fin prima della creazione del mondo) ad essere santo e immacolato nella carità, in quel mistero straordinario (e gratuito) dell'essere "predestinati" ad essere figli di Dio.
Se Cristo Risorto è la primizia di coloro che sono morti (1 Cor 15,20), anche in Maria contempliamo una primizia, la primizia della Chiesa, come ascoltiamo nel Prefazio della Santa Messa: 

"Oggi la Vergine Maria, madre di Cristo, 
tuo Figlio e nostro Signore, 
è stata assunta nella gloria del cielo. 
In lei, primizia e immagine della Chiesa, 
hai rivelato il compimento del mistero di salvezza 
e hai fatto risplendere per il tuo popolo, pellegrino sulla terra, 
un segno di consolazione e di sicura speranza. 
Tu non hai voluto che conoscesse la corruzione del sepolcro 
colei che ha generato il Signore della vita".

Commentava così, papa Benedetto XVI, le parole dell'Epistola di San Paolo, che quest'oggi la Liturgia ci propone:



«San Paolo, ci aiuta a gettare un po’ di luce su questo mistero partendo dal fatto centrale della storia umana e della nostra fede: il fatto, cioè, della risurrezione di Cristo, che è "la primizia di coloro che sono morti". Immersi nel Suo Mistero pasquale, noi siamo resi partecipi della sua vittoria sul peccato e sulla morte. Qui sta il segreto sorprendente e la realtà chiave dell’intera vicenda umana. San Paolo ci dice che tutti siamo «incorporati» in Adamo, il primo e vecchio uomo, tutti abbiamo la stessa eredità umana alla quale appartiene: la sofferenza, la morte, il peccato. Ma a questa realtà che noi tutti possiamo vedere e vivere ogni giorno aggiunge una cosa nuova: noi siamo non solo in questa eredità dell’unico essere umano, incominciato con Adamo, ma siamo "incorporati" anche nel nuovo uomo, in Cristo risorto, e così la vita della Risurrezione è già presente in noi. Quindi, questa prima "incorporazione" biologica è incorporazione nella morte, incorporazione che genera la morte. La seconda, nuova, che ci è donata nel Battesimo, è "incorporazione" che da la vita. Cito ancora la seconda Lettura di oggi; dice San Paolo: "Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo." (1Cor 15, 21-24). 
Ora, ciò che san Paolo afferma di tutti gli uomini, la Chiesa, nel suo Magistero infallibile, lo dice di Maria, in un modo e senso precisi: la Madre di Dio viene inserita a tal punto nel Mistero di Cristo da essere partecipe della Risurrezione del suo Figlio con tutta se stessa già al termine della vita terrena; vive quello che noi attendiamo alla fine dei tempi quando sarà annientato "l’ultimo nemico", la morte (cfr 1Cor 15, 26); vive già quello che proclamiamo nel Credo "Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà"».
(Benedetto XVI, Omelia, 15 agosto 2010)


LA PUREZZA VINCE LA MORTE
"Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio"(Mt 5,8): è la beatitudine di Maria Assunta in Cielo. Nella purezza possiamo ricomprendere tutte le altre sue virtù. Ogni prerogativa, ogni qualità di Maria, ogni suo pregio, ogni suo talento è totalmente "puro", elevato all'ennesima potenza, sviluppato in sommo grado, coltivato senza ombra, senza doppio fine, senza egoismo alcuno. 
L'immacolatezza di Maria è dunque questo essere completamente "trasparente" agli occhi di Dio in ogni sfaccettatura. Tutto ciò che Maria ha ricevuto lo ha utilizzato e perfezionato solo per la maggior gloria del suo Creatore e per collaborare con Cristo all'opera della salvezza.
La purezza di Maria non è solamente, però, spirituale. Il cuore rimanda, nel linguaggio biblico, al nucleo della persona, e la persona è fatta di corpo e di anima, di materia e di spirito. Non a caso, nel Vangelo, leggiamo:
"La lampada del corpo è l'occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!". (Mt 6,22-23)
La purezza interiore si trasmette all'esteriorità della persona. Se Maria è Immacolata, la Tutta Pura, questa sua purezza è "luce" tanto nel suo cuore, quanto nel suo corpo.
L'Apocalisse pennella Maria esattamente in questa dimensione di "bellezza" vittoriosa sulla morte tanto nello spirito quanto nel corpo: è l'immagine della "donna vestita di sole"!

RIVESTITI DELLA LUCE DI CRISTO
Nel Cantico del Benedetto facciamo memoria di Cristo quale "sole che sorge" (cfr Lc 1,78) e l'immagine della luce ricompare anche nelle parole stesse di Gesù, che si autodefinisce "la luce del mondo" e afferma: "chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Gv 8,12).
Maria Assunta in Cielo ci rammenta, quale nostro modello di pellegrini nella fede verso la Patria celeste, che solo lasciandoci inabitare dalla luce di Dio possiamo sconfiggere la morte e avviarci verso quel destino di vita eterna in cui lei ci precede.
Nel suo mistero dell'assunzione, Maria ci rimanda alle parole del profeta Isaia: "Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te". (Is 60,1)
Rivestiti della luce di Cristo possiamo sconfiggere "il pungiglione della morte", ossia "il peccato" (Cor 15,56), ciò che ci separa da Dio, ciò che impedisce di presentarci al suo cospetto e di contemplarlo "così come egli è" (1 Gv 3,2).
L'assunzione di Maria non è, allora, un mistero che non ci riguardi da vicino, o qualcosa da contemplare solo a bocca aperta, ma... a braccia conserte.
No, l'assunzione è invito al movimento, ad agire per costruire il nostro futuro di "risorti" con Cristo assieme a lei, passo dopo passo, in questo pellegrinaggio verso quel Cielo che Lei, primizia della Chiesa, ha già raggiunto nella sua umanità, nella sua spiritualità, nel suo essere donna, madre, figlia, vergine e sposa. In sintesi, nel suo essere tutto ciò per cui Dio l'aveva "pensata".
Maria Assunta in Cielo si presenta a noi quale modello da imitare, affinché possiamo purificare noi stessi, per partecipare con lei alla gloria del Signore, risorgendo, alla fine dei tempi, nella nostra umanità. In lei vediamo, già oggi, come in uno specchio,  "ciò che saremo" e che "non è stato ancora rivelato". Il mistero della nostra corporeità che verrà "assunta" da Dio nella sua vita eterna, ci renderà ciò che già Maria è: essere "simili a lui, perché lo vedremo così come egli è"   (1 Gv 3,2) e avremo la luce della vita, cioè Dio stesso.

giovedì 13 agosto 2015

PERDONARE SEMPRE

Settanta volte sette
- Commento al Vangelo di oggi -



"Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette."
Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano.

(Mt 18, 21-22; 19,1)



Il Vangelo di oggi (da cui ho estrapolato solo qualche pericope) ci spinge quasi con "violenza" sul tema del perdono. Con violenza, sì, perché Gesù vuole scardinare i perbenismi e le fintive dell'animo umano...
Con violenza, perché perdonare implica il vincere i sentimenti impulsivi del cuore, per fare spazio all'amore di Dio.

SETTE VOLTE?
Il sette, nella Bibbia, è il numero della perfezione. In un certo senso Pietro sta allora già facendo un discorso "santamente sensato": se qualcuno sbaglia verso un fratello, l'errante va perdonato fino in fondo. 
Il perdono è qualcosa che non ammette mezze misure. O si perdona veramente, totalmente, con cuore "riconciliato", o non si perdona affatto, perché il finto perdono è pura ipocrisia, è menzogna davanti agli uomini, nel proprio io e nei confronti di Dio.
Ma...

L'UOMO E' IN GRADO DI MISURARE LA PROPRIA CAPACITA' DI PERDONARE?
La risposta di Gesù sembra dirci di no.
O meglio, forse l'uomo è in grado si farlo solo in "astratto", giudicando casi ipotetici o guardando con occhio critico le vicende altrui.
Cosa accade, invece, quando ad essere "coinvolto" dall'esperienza della difficoltà di perdonare è ciascuno di noi?
Può accadere che quella misura astrattamente "infinita" - perfetta - del perdonare si dissolva, e che, per questo, ci si senta giunti "al limite" della sopportazione, all'estremo della capacità di passare sopra le offese e di tendere la mano al prossimo che ci ha fatto un qualche torto, più o meno grave.

DAL SETTE AL SETTANTA
Il passaggio numerico vuole comunicarci questo: per perdonare non bisogna mai pensare di aver fatto "il massimo". Le circostanze, l'amor proprio, l'egoismo, la concupiscenza, i sentimenti anche non voluti (ma reali) di astio, le ferite per i danni cagionatici da qualcuno, potrebbero annebbiare la nostra capacità di "calcolare" il massimo del perdono di cui siamo capaci.
Il rischio è allora di bloccarsi, di impelagarsi in un facile "non ce la faccio", "non posso".
Gesù ci dice: andate oltre. Superatevi.
E' possibile farlo solo pensando di non essere mai arrivati al limite.
Possiamo perdonare sempre di più. 
E' quello che ci ha dimostrato Lui.

"PERDONA LORO PERCHE' NON SANNO QUELLO CHE FANNO"... (Lc 23,24)
Tra le ultime parole di Gesù sulla Croce, troviamo quelle sul perdono.
C'è qui un parallelo con il Vangelo odierno, in cui si legge che, prima di lasciare la Galilea, Gesù termino i discorsi sul perdono.
Così, il Cristo Crocifisso, prima di lasciare la terra, volle concludere il suo grande discorso sul perdono, invocandolo per i Suoi crocifissori, per il ladrone pentito, per tutta l'umanità.

COSA SAREBBE UN CRISTIANESIMO SENZA PERDONO?
Potremmo amare senza perdonare?
L'essenza dell'Amore è amare misericordiosamente. Nessuna creatura sarebbe degna delle attenzioni divine. 
La vita delle stesse creature, se la guardiamo a fondo e con disincanto positivo, è un continuo riconciliarsi: gli amici si "perdonano" per le lievi o grandi incomprensioni; gli sposi si perdonano per i piccoli, inevitabili diverbi; i genitori perdonano i figli per le loro marachelle; i figli perdonano i genitori per quei quasi imprescindibili "errori" educativi che cammin facendo si compiono....
Chi è senza peccato, scagli la prima pietra (cfr. Gv 8,7)! 

Tutti siamo stati avvolti dal perdono di Dio e continuamente ne abbiamo bisogno; ciascuno vive la dimensione dell'amore umano come perdono donato e ricevuto, perché la perfetta integrazione delle creature in Dio avrà luogo solo in Paradiso.

Il perdono, dunque, non è una diminuizione, ma un accrescimento.
Per-donare, in cui quel "per", etimologicamente, indica un "compimento": sulla Croce tutto è compiuto. Sulla Croce il perdono "settanta volte sette" ha raggiunto quelle proporzioni divine che Dio stesso mette alla "portata" di tutti.
Dalla Croce dobbiamo ricavare la possibilità di perdonare oltre ogni nostra possibilità.
Il perdono non ha limiti.
Dio ce lo ha dimostrato.