lunedì 2 settembre 2013

GALATEO SPIRITUALE? -Riflessioni sul Vangelo


  Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. 
Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”.
 Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. 
Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».



Il Vangelo di Domenica scorsa (Lc 14,1.7-14) ci presenta un banchetto, dei commensali un pò in ansia per i posti da accaparrarsi, due regolette di "bon ton" spirituale per non farsi travolgere dalla vergogna di aver preso il posto sbagliato, quello di un invitato di maggior riguardo!

Già: galateo spirituale.
Galateo della vita interiore.
Quello che ci toglie dal vero imbarazzo: non dalla gaffe di aver fatto lo sgambetto a qualcuno, ma di sentirci dire "Amico, fai posto ad un altro" nientemeno che dal Maestro della Cerimonia di Nozze! Anzi, dallo SPOSO stesso!

A ben pensarci, è quasi aspetto trascurato nella vita di molti noi cattolici, quello del "galateo" spirituale...
Siamo ben pronti a rispettare le etichette esteriori: andare a Messa ogni Domenica, da buoni credenti praticanti; tenere il ritmo di un tot di confessioni (essere almeno in regola con la prescritta riconciliazione una volta all'anno...); apparire pii e ferventi religiosi in fila alle principali processioni parrocchiali...e poi coprire con un bel mucchio di "profumo" gli sgradevoli odori che promanano dall'interiorità poco curata.
Proprio come quei farisei e quegli scribi ipocriti che puliscono "l'esterno del bicchiere e del piatto", ma trascurano l'interno (Lc 11,39).

Il bon ton che insegna Cristo è tutto diverso: non accantona e neanche stravolge le regole esteriori (l'invito a pranzo, i posti a sedere, la veste della festa), ma capovolge l'interiorità con cui vivere queste regole.
Gesù vuole, che alla raffinatezza dell'esterno (partecipare al banchetto cui si è invitati, arrivare con la veste nuziale), si accompagni una certa "ricercatezza" interna.

Non è un paradosso: l'umiltà è sì semplicità, ma è anche ricercatezza, finezza d'animo.

L'umiltà finta è facile da smascherare: si può fingere di mettersi all'ultimo posto perché si vuol sentirsi dire, non dallo Sposo, ma da altri invitati: "Prendi il mio posto, tu sei più importante di me".
Si può fingere di essere al primo posto solo perché nessuno ha mai reclamato quel servizio, quell'incarico e dunque mostrarsi docili e pacifici, finché non vengono toccate le proprie posizioni!
Si può negare l'arrivismo per tornaconto personale manifestando cortesia verso i meno fortunati solo a parole o solo con le tasche, ma senza offrire la cosa principale: sè stessi!

Il galateo spirituale che insegna Gesù dice che occorre dell'altro: avere la "squisitezza" di chi sa prendere l'ultimo posto senza farlo pesare agli altri; senza far notare che a volte quello non sarebbe il posto adeguato alle proprie capacità o potenzialità, ma accettandolo ben volentieri, senza sbandierare referenze e aspettative;
saper collaborare in un gruppo senza voler far andare avanti solo le proprie idee (magari anche più giuste o innovative), per dare libertà a tutti;
il bon ton che traccia il Signore è quello di chi è veramente "signorile" e sa fare spazio a tutti, senza salire sul piedistallo dell'egocentrismo, dell'autoreferenzialità, delle manie di grandezze, della corsa sfrenata all'attivismo.

Occorre andare ad un banchetto di nozze per apprenderlo?
No...basta entrare nel banchetto della vita, dal mondo familiare a quello lavorativo, dalla realtà di parrocchia agli ambienti che si attraversano solo sporadicamente...

Dovunque si può imparare ed attuare questo galateo tutto "speciale".
Non è un bon ton semplice: ci vuole più accuratezza nel nascondersi senza dare a vederlo, che nel mettersi in mostra in nome di un qualsivoglia titolo, spacconeria o capacità con finta nonchalance!

Ci vuole molta abilità per vincere le tentazioni di superbia, che rischiano di rovinare il vero castello della vera umiltà...
Ci vuole molta più arte nel fare la carità...con arte, che nel farla allungando solo una moneta nella mano di chi chiede.
Papa Francesco ce lo sta spesso ripetendo: carità è anche un sorriso, una stretta di mano...
ma sono cose che richiedono un grande esercizio di umiltà vera, quella che porta a riconoscere che l'altro è un fratello, uguale a me in dignità e che allora devo trattarlo senza evidenziare la differenza, lo svantaggio, lo "spread", come direbbero gli economisti.

Ecco, forse il punto è tutto qui: nello "spread", la differenza fra cose, persone, situazioni, capacità.

Essere avvantaggiati in qualcosa, essere più capaci in un lavoro, in un'attività, avere doti particolari in un settore, nella vita cattolica non devono portare il credente a voler necessariamente "primeggiare sempre".
Se lo "spread" diventa un motivo di vanto, senza accorgercene, lo annulliamo.
Stracciamo via il "vantaggio" di avere qualcosa.
Se si possiede un dono, un talento, una ricchezza e la si sbandiera ai quattro venti per definirsi migliori degli altri, più degni di fare, gli unici capaci di comandare, allora quel talento è come se fosse perso, perché viene SPRECATO.

Il Quoelet direbbe che "c'è un tempo per parlare ed uno per tacere" (Qo 3,7): a volte, la vera umiltà è proprio questo, saper mettere a tacere anche i propri doni per far spazio a tutti.
Che non è "annullarli" ma creare un clima collaborativo, in cui il mio mettermi a servizio dell'altro lasciandolo fare è una possibilità di crescita che gli offro, accompagnata, magari, dall'offerta dei consigli che vengono dall'esperienza che ho acquisito;
saper "silenziare" la propria capacità non è necessariamente non usarla, ma utilizzarla con la discrezione di chi non fa pesare la propria bravura;
saper dare con umiltà è diverso dal fare l'elesomina: è condividere un bene che anche a me è stato dato, che ho ricevuto da Dio.

Saper donare con l'umiltà di chi non cerca il primo posto e di chi non aspetta il contraccambio è agire come il Figlio di Dio: come Colui che è Creatore, Onnipotente, Bastante a Sè Stesso e  che vuole che io, Sua Creatura, finita, bisognosa d'affetto, cooperi con Lui alla "gestione" del mondo e alla salvezza delle anime.

Finanche i doni spirituali non devono tradursi in una corsa per il primo posto, per la santità sbandierata.
Scriveva don Primo Mazzolari, in "La Parola che non passa": "Nè allora, nè adesso, nè mai, è tempo di piantare tabernacoli sul Tabor.
Ai piedi del Tabor c'è una turba di malati, di sofferenti, di affamati, di schiavi che attendono la liberazione.
La contemplazione che si distacca, la bontà che si chiude, la grazia che non viene comunicata è un Tabor che non c'interessa.
Si vede per coloro che non vedono; si crede per coloro che non credono; si ama per coloro che non amano; si sale sul Tabor per coloro che non vi possono salire".

L'umiltà di un Dio fatto Carne mi dice oggi, dopo duemila anni, come solo l'amore renda capaci di cedere il passo.

 

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