mercoledì 10 marzo 2010

OBBEDIENZA. La parola dimenticata -Prima parte-



Etimologia della parola“obbedienza”: udire per prestare ascolto.

 
(Rembrandt -Il figliol prodigo)

Nell'antica Roma, il concetto dell'”obbedienza” era molto forte. Non a caso, la società patriarcale e imperiale del tempo era strettamente fondata su questo valore che, in virtù della sua “obbligatorietà”, imponeva un giogo -economico, familiare, personale- fortemente pesante. Insomma, un modo sbagliato di concepire l'idea dell'obbedienza, riducendola a mero “asservimento”: della moglie sul marito, dei figli nei confronti del padre, dello schiavo rispetto al padrone, dei sudditi verso l'imperatore di turno.
L'avvento del Cristianesimo portò invece ad un cambiamento qualitativo del concetto di obbedienza, facendone una modalità del rapporto con Dio, con i fratelli in Cristo...in un certo senso, anche di quello con sé stessi.
Con l'ingresso di Gesù nella storia, l' obbedire non è più un'imposizione. Dio non “obbliga” nessun a far nulla, viene incontro all'uomo chiedendo semplicemente di amarLo....ma lascia al singolo la scelta libera e personale. E inoltre ci consegna l'esempio migliore, perfetto: Suo Figlio, che, come dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, “nella sua vita nascosta, con la sua sottomissione, ripara la nostra insubordinazione”.
Mondo romano e mondo cristiano offrono dunque le antitesi dell'obbedienza. Socio-culturale-politica e poteriale nel primo e di puro amore libero nel secondo.
Prendere coscienza di questo nuovo modo di intendere l'obbedienza, ha cambiato radicalmente la storia dell'umanità, in un crescendo di consapevolezza della dignità di ogni uomo, nella convinzione che Dio ci abbia “creati a sua immagine e somiglianza” (e non che abbia creato l'uomo di serie a e quello di serie b, o l'uomo incapace per natura di essere obbediente!) e in qualche modo, influenzando anche gli aspetti del sociale non strettamente cattolici. Numerose “rivolte” storiche non hanno avuto una matrice cristiana, ma si sono poste, come nocciolo della questione, la parità “decisionale” dell'essere umano, prescindendo dal sesso, dalla razza, dal ceto.
Comprendere, non solo a livello di fede, che l'uomo abbia una sua “libertà nell'obbedienza”, dovrebbe condurre -quasi per regola- alla perfezione di un sistema di cui il “prestare ascolto” sia la logica conseguenza, se non sempre dell'esperienza religiosa, quantomeno della ragione, non occultata oggi, rispetto al passato, da preconcetti e ignoranza. O almeno, cosi' dovrebbe essere.
Analizzando tuttavia la storia contemporanea -anche al livello di microsocietà- è facile riscontrare come si sia invece pervenuti al risultato opposto.
L'uomo di oggi non obbedisce, divincolandosi spasmodicamente da ogni maglia stretta di regole, canoni, codici prefabbricati. Spesso, rifuggendo anche da quell'insieme di argini autocreati per gestire la propria esistenza. Insomma, costruiti dagli altri oppure in autonomia, gli apparenti “limiti” dell'obbedire, spaventano. E di fronte alla paura, si sceglie la via più facile: la fuga.
Nel corso della lectio al clero romano -nel novembre 2009- il Santo Padre Benedetto XVI ha affermato: “obbedienza. E’ una parola che non piace a noi, nel nostro tempo. Obbedienza appare come un’alienazione, come un atteggiamento servile. Uno non usa la sua libertà, la sua libertà si sottomette ad un’altra volontà, quindi uno non è più libero, ma è determinato da un altro, mentre l’autodeterminazione, l’emancipazione sarebbe la vera esistenza umana”.
Ecco, il punto centrale e scottante dell'argomento, è perfettamente contenuto in queste cristalline parole del Santo Padre. 
Paradossalmente, il progresso ci ha fatto regredire. 
Le conquiste sociali, scientifiche, personali, hanno condotto ad intendere il “prestare ascolto” alla maniera del mondo romano, a fare -ingiustamente- dell'obbedienza una sottomissione sterile da cui si vuole evadere, considerandola come improduttiva e acerrima nemica della mente e dello spirito umano.
Lo sconvolgimento dei sistemi che ne è derivato -nel campo della giustizia, della famiglia, della scuola- lo abbiamo sotto gli occhi ogni giorno. Si potrebbe obiettare: era così anche prima, i sistemi umani sono intrinsecamente fallibili. Niente di più vero: le metodologie umane non sono perfette, nascondono in nuce il nucleo della loro imperfezione. 
Ma le società del passato si facevano sostenitrici di un corpus di valori che ancora venivano alimentati nelle famiglie, a livello governativo, nella “buona società”. Insomma, pecore nere si, ce n'erano tante anche all'epoca, ma il modello che andava per la maggiore era quello di un mondo in cui le regole esistevano e andavano rispettate. Pena il sovvertimento dell'ordine, non soltanto sociale. 
Guardando le cose in una prospettiva cristiana, si potrebbe riassumere il successivo “decadimento” di questo sistema, facendo nostre le parole del Papa, che nel libro “Gesù di Nazaret” scrive : “oggi c'è l'ideologia del successo, del benessere, che ci dice: Dio è solo una finzione, ci fa solo perdere tempo e ci toglie la voglia di vivere. Non ti preoccupare di Lui! Cerca da solo di carpire dalla vita quanto puoi!”
E se Dio non esiste, va da sé che, nella maggior parte dei casi, venga meno nell'esistenza umana anche tutto l'insieme di “elementi” che da Lui derivano: famiglia, rispetto delle leggi (Gesù stesso disse “Date a Cesare quel che è di Cesare....”), senso della morale, etica.
In una parola sola, si incenerisce l'obbedienza (intesa ad ampio raggio) che dobbiamo non solo al Signore, ma anche a chi, in un certo modo, Lo rappresenta in terra (genitori, governi, “capi” religiosi) e a quel corpo di regole su cui si regge l'ordine materiale delle cose -la dimensione storica e temporale in cui il Creatore ci ha voluto calare-.
A questo punto, l'uomo si lascia afferrare da una effimera sete di libertà, come accade al Figliol prodigo nella parabola evangelica. Quel figlio che a casa sua si sentiva “schiavo” del padre e del lavoro, che decide di lasciare tutto e partire, per fare di testa propria. 
Decide di usare solo la sua “libertà”....e cade nel fango. Così riesce a rendersi conto che finanche gli schiavi di suo padre sono più liberi di lui. Che il rispetto delle regole, la giusta obbedienza, non tolgono nulla all'uomo, ma gli consentono di esercitare invece la personale autonomia con ragionevolezza, senza farlo accecare dallo smodato desiderio di egoistico libertinaggio.
Sant'Ambrogio ci ha lasciato queste intense parole al riguardo: “Colui che sottomette il proprio corpo e governa la sua anima senza lasciarsi sommergere dalle passioni è padrone di sé; può essere chiamato re perché è capace di governare la propria persona; è libero e indipendente e non si lascia imprigionare da una colpevole schiavitù”.


Fine della prima parte

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